quarta-feira, 26 de dezembro de 2007

Fraternidade e Direito Penal - Atos de um seminário sobre Carcere realizado em março 2007 - em Roma

INDICE
- Introduzione del dott. Giovanni Caso - magistrato
- Relazione del dott. Sebastiano Zinna – dirigente ISSP
- Comunicazione della dott. Anna Del Villano – direttrice Istituti di pena
- Comunicazione di M. Gabriella Mezzetti – assistente di Polizia penitenziaria
- Comunicazione del dott. Diego Mansutti – insegnante nelle carceri
- Comunicazione di padre Antonio Bagnulo – cappellano Istituti di pena
- Comunicazione della dott. Maria Pacca – assistente sociale UEPE
- Relazione del dott. Salvatore Nasca – direttore UEPE
- Intervento di Mons. Giorgio Caniato – Ispettore Generale Cappellani Carceri
- Esperienza di Benedetto e Caterina Di Marzo – volontari carceri
- Esperienza di Alfonso Di Nicola – volontario carceri
- Esperienza di Michaela della Romania – volontaria carceri
- Esperienza della Comunità “Nuovi Orizzonti” per l’accoglienza e il recupero
- Esperienza di Fulvia di Bergamo – volontaria carceri
- Esperienza di Carlo Tedde – presidente di Federsolidarietà della Sardegna
- Impressioni di partecipanti al Seminario:
- Antonella Bianco
- Caterina di Marzo
- Concettina Candeloro
- Benedetto Di marzo
- don Pietro Gennaro
INTRODUZIONE
dott. Giovanni Caso
L’idea di questo convegno - che ha assunto il carattere di un seminario per una considerazione sull’attuale realtà penitenziaria e su quanti vi operano, operatori istituzionali e volontariato - è nata per un duplice motivo: 1) Abbiamo già fatto negli anni passati quattro incontri per operatori penitenziari e volontari allo scopo di conoscersi, scambiarsi esperienze di lavoro, mettere in comune situazioni ed esigenze, con l’obiettivo di costruire una unità fra tutti onde sempre meglio comprendere il compito di ciascuno e come svolgerlo nel modo migliore. Ricordo che al primo di detti convegni venne un mio amico; egli rimase colpito dal fatto che la realtà penitenziaria veniva in rilievo nella sua unitarietà attraverso le esperienze dei diversi operatori. Ora, tutti quelli che avevano partecipato a questi incontri precedenti hanno ripetutamente chiesto di potersi ritrovare per continuare lo scambio, l’approfondimento e la comunione; 2) L’incontro con Mons. Caniato, qui presente, che ringrazio anzitutto per il suo interesse alla nostra esperienza, al nostro modo di lavorare nel carcere sia come volontari sia come operatori istituzionali. Sappiamo, infatti, che anche la Conferenza episcopale italiana ha nei suoi punti programmatici quello del carcere, in particolare sotto il profilo del rapporto tra la comunità e il carcere.
Ora, una considerazione su tale problema. E’ emerso, nel lavoro di preparazione di questo convegno, che è riduttivo parlare della realtà penitenziaria riferendosi solo al carcere. Nella commissione preparatoria sono state presenti tutte o quasi le figure degli operatori penitenziari, onde stabilire in unità contenuti e finalità del convegno.
Si è compreso che quando si parla della realtà penitenziaria, non si può riferirla solamente al momento del carcere, perché prima del carcere c’è stato il delitto, la violazione dell’ordine giuridico, il turbamento della convivenza sociale. Esiste, quindi, prima del carcere la realtà della devianza. Poi, ci si rende conto che dopo il carcere c’è l’esigenza del rientro nella società delle persone che hanno commesso reati e scontato la pena.
Ci siamo resi conto che non è solo il carcere da considerare, ma tutto la complessa e ampia realtà che comprende il prima del carcere e il dopo carcere.
Questa mattina, prima di venire qui, mi sono appuntato un breve pensiero, più di carattere spirituale. Mi è venuto da una riflessione che ho fatto ieri sulla preghiera collettiva. Noi sappiamo che la preghiera collettiva per eccellenza è il Pater noster, preghiera al plurale; la recitiamo infatti al plurale: “noi”, non “io”. Per me è stato illuminante e ho detto: anche noi che vogliamo interessarci di questo aspetto della realtà umana, che è il carcere, degli uomini che vanno in carcere, degli ex-detenuti da reinserire, ecc., dobbiamo essere consapevoli che dobbiamo operare “al plurale”, cioè insieme, in unità. Inoltre, questa realtà della devianza, della giustizia penale, della pena e del reinserimento sociale, interessa la società intera, non solo quelli che hanno il compito specifico di lavorare per essa. E’ dunque la società che deve sentire propria tutta questa realtà, perché riguarda una parte di se stessa. Perciò mi sembrava che a questo problema dobbiamo interessarci ‘al plurale’, noi società e noi operatori.
Anche noi operatori dobbiamo operare “al plurale”, cioè in unità. Nel lavoro preparatorio veniva in evidenza che ciascun operatore, e anche ciascun volontario, se agisce da solo nella realtà penitenziaria subisce almeno due conseguenze: una, di essere schiacciato dalla realtà stessa, l’altra, che la sua azione, isolata da quella degli altri, rischia di risultare inefficace, se non dannosa..
Quindi, ci deve essere una collaborazione tra gli operatori e anche tra i volontari e gli operatori, perché solo attraverso un’azione unitaria si può rendere efficace il lavoro per le finalità della condanna penale.
Ma, non solo questo; nella riflessione di ieri pensavo: “questa è anche umiltà: chiedere l’aiuto dell’altro; umiltà di riconoscersi solo un pezzettino di questa realtà”. Ora, questo chiedere l’aiuto all’altro mi sembra che è, si, un segno di umiltà, ma è anche l’avvio a quell’operare uniti, a quell’operare al plurale, che, oltre a rendere efficace la nostra azione, mette ciascun operatore al proprio posto nel rispetto del ruolo degli altri.

RELAZIONE del dott. SEBASTIANO ZINNA

(Dirigente Istituto Superiore Studi Penitenziari)



CARCERE è COMUNITÀ: CHE FARE?


Premessa
La percezione del carcere più diffusa è che si tratti di un mondo a parte.
La verità è che il carcere, in tutte le sue forme e nella struttura organizzativa ed istituzionale che lo sostiene, riflette in modo speculare le contraddizioni della società e del suo modello di sviluppo.

La povertà, la corruzione, i flussi migratori,le dipendenze,le scelte di Welfare, i piani urbanistici delle città e dei quartieri hanno un legame profondo con il carcere perché ne sono, assieme, la ragione dell’esistenza e l’effetto amplificato del carico di violenza che produce.

1. Alcuni dati sintetici sulla situazione penitenziaria oggi

L’universo penitenziario nel quale oggi ci muoviamo, vede entrare in carcere nel 2006 90.714 persone, delle quali il 48% stranieri.
Grazie anche all’applicazione dell’indulto ( 25.894 beneficiari), oggi (14 marzo 2007) contiamo una presenza complessiva di 41.212 detenuti di cui 1.780 donne e 39.432 uomini. Nel Lazio sono presenti nei 18 istituti 4.259 detenuti di cui 307 donne 3.952 uomini.

Il carcere si declina al maschile 95,7 % del totale (4,3% donne) e, per età al “giovanile”: il 61,6% ha una età compresa tra i diciotto e trentanove anni.




Il 57% dei detenuti sono imputati ed il 39% definitivi, il 4% internati.
Le pene inflitte si suddividono , in media con un 20% per ognuna delle classi che va fino a tre anni,da tre a sei, da sei a dieci,da dieci a venti e oltre venti ed ergastolo.

Tra i condannati presenti in carcere al 31 dicembre 2006, considerata la durata
della pena residua, sono rappresentati per il 42,4% con pene fino a tre anni e per il 21 ,6% con pene tra i tre e sei anni.

Dei detenuti presenti in carcere lavora solamente il 25,3%
Iscritti a corsi professionali risultano, al 31 dicembre 2006, 3.659 detenuti distribuiti in 316 corsi professionali attivati.

La distribuzione dei detenuti stranieri secondo la nazionalità di origine vede al primo posto il Marocco (20,00%) e a seguire Albania (14,0%),Romania (12,5% ) .




Il carcere, nel sistema italiano, rappresenta la forma più severa di esecuzione della pena. La legge italiana, infatti, prevede nel suo ordinamento penitenziario diverse modalità di esecuzione della pena inflitta ad un cittadino.

Dalla sommaria lettura dei dati riportati emerge che la maggior parte delle persone alle quali viene inflitta la forma più severa di espiazione della pena è proprio quella più fragile e sprovveduta, quella che dovrebbe poter fruire in larga misura delle misure alternative e che dovrebbe a maggior ragione fare a meno del bagaglio di violenza gratuito e patologico, di natura ambientale e relazionale che si assimila in una cella, magari sovraffollata.

Il sovraffollamento, cui l’indulto ha posto un temporaneo rimedio non è determinato dalla quantità assoluta di reati che paradossalmente sono diminuiti, bensì dall’effetto del quadro legislativo di questo ultimo quinquennio. A questo proposito si fa riferimento, a titolo di esempio, alla legge Bossi-Fini, alla ex Cirielli, alla Fini-Giovanardi.
L’indulto con i suoi effetti negativi e positivi, rischia di focalizzare tutta la sua attenzione sui comportamenti agiti dalle persone scarcerate. La loro utilizzazione molto spesso è solo funzionale alle opinioni di coloro che dicono di essere contrari a tali forme clemenziali. Ma nei fatti viene distolta l’attenzione da coloro che in carcere sono rimasti o che rimangono tuttora in esecuzione penale esterna.
Si spengono infatti i riflettori sul carcere e si crea la premessa per il suo degrado. Basti considerare a questo proposito i tagli alle risorse finanziarie per comprendere come si riduca la possibilità di attivare quel “trattamento conforme alla legge”in passato messo ai margini e oggi quasi ignorato limitandosi l’azione penitenziaria a mera custodia.

I problemi balzati alla ribalta circa il reinserimento sociale di coloro che hanno beneficiato dell’indulto pongono un problema antico. L’assegnazione al carcere di compiti sociali che non possono appartenergli né da esso o con esso possono essere risolti, deve richiamare all’attenzione e alla sensibilità dei cittadini e alle responsabilità della classe politica il fatto che le tensioni sociali non possono trovare la risposta nel carcere. Esse sono la spia di un disagio profondo della nostra struttura sociale. Facendo diventare penale il sociale si appesantiscono entrambi contribuendo al loro degrado.

2. Due miti falsamente enfatizzati.

Concorrono a questo appesantimento e degrado due miti falsamente enfatizzati: la “sicurezza delle nostre città” e “la certezza della pena”.
La rapida scorciatoia delle risposta penale e carceraria ai problemi sociali ricordati, compromette la costruzione dei legami sociali , compromette la capacità di riconoscere una comune cittadinanza e spinge ai margini un numero crescente di persone. L’invocata sicurezza attraverso il parafulmine del carcere per ogni problema, rischia di far perdere di vista le politiche sociali di inclusione a beneficio di una panacea illusoria e di una risposta generalizzata ma del tutto inadeguata e insufficiente.

Contro queste tendenze occorre che l’Amministrazione penitenziaria, e per essa i suoi operatori, svolga l’essenziale ruolo di garante e responsabile del valore risocializzante della pena. Rinunciandovi si contribuisce a fare del carcere un luogo di violenza e una scuola criminogena.
Quanto alla “la certezza della pena” occorre dire che si tratta di uno slogan che traduce un altro infausto slogan “tolleranza zero”. È utile ricordare che la tolleranza zero negli Stati Uniti ha elevato a dismisura il numero delle persone detenute. Sono sei milioni le persone sottoposte a restrizioni della libertà e due milioni sono detenute. È vero però che dei sei milioni, due terzi si trovano in regime alternativo al carcere a differenza di quanto avviene in Italia.
Il mostrare i muscoli in ambito penale può significare spesso solo riempire inutilmente le carceri.
A soddisfare il bisogno reale di sicurezza contribuirebbe notevolmente da una lato la certezza di un processo , equo e in tempi certi e non infiniti e dall’altro la possibilità di disporre di un ventaglio di pene alternative efficaci riservando al carcere la funzione di estrema ratio. Non si può confondere la certezza della pena con una sola pena: quella della detenzione.

3. Ragionare di carcere è ragionare di uomini

“Ragionare del carcere deve essere ragionare degli uomini e delle donne che vi sono rinchiusi, ragionare della loro dignità di persone, dei loro bisogni e dei loro diritti, primo fra tutti quello alla occasione del proprio riscatto.”
Tutto ciò significa che, tra l’altro, occorre intervenire sul dolore generato dal carcere. Un dolore che è difficile esprimere a parole perché percepito da ogni persona e filtrato dalla propria emotività e dalla propria storia. Un dolore che in carcere rischia di trovare solo risposte farmacologiche – quando ci sono i farmaci – e non di presa in cura attraverso il suo riconoscimento all’interno di una relazione significativa. Si tratta di un dolore che la persona detenuta o condannata immagazzina dentro di sé e che , a fine pena, restituisce alla comunità con costi per la collettività che non è difficile immaginare.

Se quanto avviene in carcere non è altro che la rappresentazione di quanto avviene nelle nostre città nei nostri territori si può consapevolmente ipotizzare che sia possibile lavorare affinché il luogo di intrinseca negazione di speranza diventi il luogo di costruzione della speranza , il luogo di sperimentazione della praticabilità della speranza.

In questo senso è possibile disegnare un processo esecutivo della pena, individualizzato e graduato secondo le singole posizioni, che veda attivate più risorse, a partire da quelle soggettive della persona detenuta e condannata, posta di fronte ad una prospettiva seriamente responsabilizzante, che veda coinvolti , accanto agli operatori penitenziari, tutti gli attori sociali interessati al processo di inclusione sociale costruttiva. Questo è un percorso di vera riabilitazione sociale, tutto il resto rischia di trasformarsi in sostanziale vendetta sociale.

Per quanto difficile, occorre lavorare affinché la persona non sia ridotta al suo delitto ed alla sua pena non lasciandosi fuorviare , circa l’impossibilità, dai casi pubblicizzati dai mezzi di comunicazione a motivo della drammatica complessità o a motivo della loro estrema gravità.

L’obiettivo, per la stragrande maggioranza, resta il reinserimento sociale e lavorativo per la riduzione del rischio della reiterazione del delitto. È sicuramente conveniente investire sulla persona detenuta e sulle possibili modalità della espiazione della pena anziché sul carcerato senza speranza.

In questa prospettiva le statistiche sembrano confortare tali orientamenti.
Il tasso di recidiva delle persone detenute è del 75-80% a fronte di un 12% (persone non tossicodipendenti) e del 27% (tossicodipendenti).

4. Il carcere è comunità

Il nostro legislatore definendo l’assetto normativo del penitenziario ha inteso connotarlo come COMUNITÀ. Infatti, per differenza, quando parla di comunità locale e comunità esterna in riferimento alla società, sottintende, a mio parere, definire il carcere come comunità interna, comunità nella comunità.

L’attività trattamentale é impegno e compito di tutti gli operatori e per, la simmetrica corrispondenza, possiamo dire è compito e impegno di tutta la comunità.
È, infatti, con riferimento alle risorse della comunità locale, che saranno organizzati e svolti i programmi trattamento ( art. 4 O.P.). È per l’alto interesse insito nell’azione di rieducazione che occorre sollecitare la disponibilità di persone ed enti idonei a partecipare attivamente alle azioni di reinserimento ( art. 68 O.P.).

È, infine, per queste motivazioni che si stabilisce un continuum nell’esecuzione penale, chiamando a realizzare questo processo unitario tutte le strutture penitenziarie di una regione - istituti penitenziari e uffici esecuzione penale esterna - debbono costituire un complesso operativo unitario.

Quindi l’intervento penitenziario non è opera di titanici salvatori ma frutto di un duro lavoro di integrazione, partecipazione e condivisione sulla base di costruzione di programmi, di progetti individualizzati nei quali tutte le forze vive, i soggetti interessati della comunità interna ed esterna, possono fornire il proprio contributo.
Ma “le leggi, le istituzioni, i cittadini, i cristiani, credono veramente che nell’uomo carcerato c’è una persona da rispettare, salvare, promuovere, educare, liberare, amare”?
Se noi leggiamo le disposizioni, paragonandole con l’esperienza di chi sta dentro il carcere e di chi sta accanto a loro,vediamo,con amarezza, delusione e preoccupazione,che la realtà carceraria italiana rischia di non rispecchiare la legge!

I motivi di queste carenze sono indicati in molteplici cause: scarse disponibilità finanziarie (ed è sicuramente vero considerati i tagli che dalle ultime leggi finanziarie sono stati apportati), si parla anche di povertà di elementi organizzativi, strutturali ,mancanza di personale…

Spesso però i principi riconosciuti come tali in via astratta vengono disattesi sotto l’influsso di diversi ed ondivaghi stati emotivi. Ed anche se guardiamo a noi stessi possiamo constatare agevolmente quanto siamo distanti, in pratica, dai principi che proclamiamo. Dobbiamo convenire con il Card. Martini che “quando si tratta di decidere o di operare i principi vengono disattesi sotto l’influsso delle varie emotività”

5. Le difficoltà

Quali sono le difficoltà che ostacolano il sentire il carcere parte della comunità?
Occorre partire dalla constatazione oggettiva che nessuna società è riuscita a liberarsi dalla necessità del carcere e pure nella Bibbia, nel Vecchio come nel Nuovo Testamento, non mancano riferimenti concreti sia alle esperienze negative di crimini che alle esperienze del carcere.

Tra le tante cause che si possono indicare come concorrenti alla rappresentazione del carcere come estraneità, rispetto alla società, possiamo indicare:
- una diversa percezione della sicurezza
- la rappresentazione mediatica del problema penitenziario
- insufficienti conoscenze ed informazioni sul lavoro degli operatori penitenziari sia dentro il carcere che fuori ( molti conoscono la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale come la misura per non fare carcere riservata ai politici o a personalità di spicco).

6. Da dove partire ?

Occorre innanzi tutto fare uno sforzo serio, consapevole e fattivo per elaborare una visione etica del problema penitenziario affrancato dal pendolo ondivago della emozione sociale o dell’allarme sociale causato da atroci fatti di cronaca.

La visone etica del problema (centrata cioè sul valore della persona detenuta o della persona che lavora con e per il condannato), dovrà alimentare un clima di simpatia sociale e di sensibilità civica oltre che, per i credenti, di vera carità cristiana per l’esecuzione penale e per il lavoro degli operatori penitenziari.

La visione etica del problema penitenziario innanzi tutto non dimenticherà nessuno dei protagonisti della vicenda. Tra questi fino ad oggi scarsa attenzione è stata riservata alle vittime ed alle loro ragioni. Se è vero che il reinserimento sociale dei condannati non può essere subordinato al parere delle vittime, è anche vero che il condannato deve essere aiutato a riflettere sulle conseguenze negative delle condotte antigiuridiche poste in essere.

Idealmente, e forse anche praticamente, durante i colloqui con i condannati gli operatori dovrebbero mettere una sedia vuota. Ciò per ricordare sempre alla persona condannata che se sulla loro posizione giuridica c’è sempre una indicazione della scadenza della pena , nel cuore delle vittime, deposito di tutto il loro dolore, è scritto : FINE PENA MAI!

In un mondo caratterizzato dall’impressionante influsso dei mezzi di comunicazione i quali tendono a semplificare fatti,situazioni e problemi complessi per necessità derivanti dalla bulimia di notizie, c’è uno spazio che solo gli operatori penitenziari possono occupare adempiendo ad un dovere civico fondamentale: quello di fornire corrette informazioni sul mondo penitenziario. Occorre che facciano conoscere il loro lavoro, la reale entità dei fenomeni penitenziari, i programmi e i progetti che predispongono in favore dei condannati.

Si possono fare tanti esempi, ma si può anche sintetizzare il pensiero affermando che là dove si tratti di problemi penitenziari un operatore dovrebbe sentire l’imperativo morale di portare la sua testimonianza. Desidero segnalare, a questo proposito , l’iniziativa del Provveditorato della Sicilia che ha organizzato con tutte le direzioni degli istituti e uffici esecuzione penale esterna delle visite alle scuole della comunità locale per far conoscere e parlare del problema penitenziario con i ragazzi e le ragazze nell’ambito di un più ampio progetto di educazione alla legalità. Se la comunità esterna non entra in carcere, è la comunità interna che si fa conoscere. Il carcere va a scuola, questo il nome del progetto.

Particolare attenzione poi va dedicata al sostegno delle famiglie di coloro che hanno problemi con la giustizia. Con un giudizio frettoloso ed approssimativo facciamo di ogni erba un fascio assimilando nel comportamento antigiuridico persone che incolpevolmente si trovano a gravitare nella sfera delle relazioni personali del condannato o del detenuto. Si deve notare purtroppo che per finalità assolutamente opposte , spesso è la criminalità che si fa carico di queste persone e non certo per scopi nobili.

I cittadini,attraverso le istituzioni pubbliche e private, le parrocchie, le associazioni di volontariato devono guardare a queste persone come le prime vittime delle conseguenze delle condotte antigiuridiche e ad essi rivolgere le loro attenzioni superando pregiudizi e preconcetti che finiscono con l’alimentare terreni fertili per l’arruolamento criminale specialmente tra i giovani.

La parola chiave risolutiva del complesso processo innescato dalle vicende giudiziarie, quando si è di fronte ad un condannato è dimissione. Tutti siamo indotti a pensare al tempo della dimissione guardando una data : la scadenza della pena o come si dice in gergo “il fine pena”. Diversi fattori, tra i quali la possibile applicazione dei benefici penitenziari, rendono incerta questa data, mentre la data di decorrenza riamane certa. Capita quindi che aspettando la data di scadenza pena ci si trovi spesso colti di sorpresa rispetto alla effettiva rimessione in libertà.

Quanto è accaduto con l’applicazione dell’indulto ha straordinariamente evidenziato quali e quanti problemi comporta una uscita dal circuito penale e penitenziario senza una appropriata azione di preparazione o senza degli interventi di supporto e di affiancamento nel rientro nella società.

Proprio lunedì scorso ha avuto avvio un importante progetto denominato ASIS (Azioni di Sistema per l’Inclusione Sociale dei soggetti in esecuzione penale). Si tratta di un progetto che vuole contribuire allo sviluppo di una nuova cultura di contrasto all’esclusione sociale dei soggetti in esecuzione penale nelle regioni Obiettivo 1 (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna, Sicilia) attraverso :
- la realizzazione di una rete tra i diversi operatori presenti sul territorio per contribuire a risolvere il problema del reinserimento sociale dei soggetti in esecuzione penale;
- l’istituzione di tavoli permanenti di concertazione tra esponenti della Pubblica Amministrazione centrale e locale, del Terzo settore e rappresentanti della imprenditorialità locale;
- lo sviluppo di una progettazione partecipata di interventi di reinserimento sociale.

L’obiettivo ambizioso del progetto, attraverso un lessico condiviso,un percorso di formazione integrato ed una partecipazione progettuale, è lo sviluppo di una rete tra i diversi operatori presenti sul territorio (operatori penitenziari, operatori degli enti locali e operatori del volontariato e dell’associazionismo del terzo settore),al fine di affrontare il problema del reinserimento sociale dei condannati e degli internati.

È necessario attivare tempestivamente, con continuità e coerenza, percorsi integrati, personalizzati e multidimensionali di reinserimento sociale; ritardi o omissioni da questo punto di vista possono comportare il rischio di un riassorbimento della persona dei circuiti devianti di provenienza.
I tagli sempre più massicci delle politiche sociali denunciano una miopia tragica ed un esito sociale che giustamente non lascia spazio per sonni tranquilli ad alcuno. La sicurezza basata sul controllo poliziesco o esclusivamente improntata all’ordine pubblico rischia di essere una illusione sconcertante.

I dati in nostro possesso dimostrano, ad esempio, che la permanenza in carcere non fa bene; di certo assicura una propensione alla recidiva tanto più alta quanto più reiterato è l’ingresso in carcere. Chi ha 11 precedenti carcerazioni ha il 24% di probabilità di recidiva a fronte di chi non ha nessun precedente detentivo le cui probabilità sono del 5%. Il carcere è autoriproduttivo e investire in carcere per ottenere sicurezza ci garantisce più carcere. Investire nel reinserimento di chi per la prima volta entra in carcere o in misure alternative al carcere ci offre speranze di inclusione sociale più consistenti e più concrete.

La predisposizione di progetti per singole persone o per gruppi omogenei ( stranieri, tossicodipendenti,giovani adulti, sex offender) consentirà di collegare sinergie e risorse che se disperse rischiano di alimentare delusione, frustrazione e abbandono del mondo penitenziario.

L’attenzione alle vittime del reato e a iniziative di giustizia riparativa, promuovendo e sostenendo intese programmatiche con Enti locali, volontariato, associazionismo e privato sociale, può contribuire a non escludere nessuno degli attori sociali della vicenda giudiziaria e penitenziaria.

Questo lavoro richiede il superamento di barriere culturali esistenti tra i diversi attori sociali. Occorre andare oltre gli stereotipi e coltivare il rispetto professionale reciproco; dalla difensiva si deve passare ad una positiva cultura improntata a fiducia, partenariato,interdipendenza, condivisone degli obiettivi.

È necessario passare dal riconoscimento delle differenze alla integrazione sviluppando specifici servizi animati ed ispirati dalle molteplici capacità attivabili nel dare risposte ai bisogni delle persone condannate.
In questa prospettiva occorre guardare con attenzione e disponibilità tutte le espressioni di solidarietà ispirati dalla fede e dalla religione nel contesto multiculturale che sempre più si va affermando nel nostro contesto sociale.

Un lavoro integrato e quindi un lavoro di squadra vanno perseguiti per supplire alle inevitabili carenze che ogni singolo componente della squadra può evidenziare. Spesso fuori dal sistema carcerario , nel privato sociale, si sono realizzate molte anticipazioni che poi sono diventati servizi permanenti della società civile. Si pensi al lavoro con i tossicodipendenti, i malati di mente, gli stranieri, i senza fissa dimora e gli emarginati che accompagno tristemente la nostra vita di ogni giorno.

Un forte impegno aspetta tutti coloro che ,con diversa motivazione, lavorano nel penitenziario: lavorare in maniera che l’auspicio formulato nell’ordinamento penitenziario - che le strutture interne ed esterne deputate ala esecuzione penale diventino un complesso operativo unitario - diventi ogni giorno di più realtà.

Ciò richiede:
- un coordinamento regionale nella raccolta dei dati sui servizi e sulle risorse disponibili ad operare per l’inclusione sociale;
- un impegno deciso dei provveditorati nell’accreditare e programmare obiettivi di reinserimento e la sicurezza della collettività ;
- un impegno a costruire una vera rete basata sulla collaborazione, l’integrazione ed il mutuo rispetto dei diversi attori sociali;
- una costante tensione verso la qualità favorendo opportuni scambi di esperienze e valorizzazione delle migliori pratiche;
- un impegno a migliorare le proprie competenze anche con la partecipazioni a percorsi formativi possibilmente interprofessionali ed integrati.

Questo ultimo impegno richiede anche che quanti operano nel campo dell’inclusione debbono possedere conoscenze su come fare a mobilitar risorse finanziarie studiando tutte modalità necessarie per utilizzarle al fine di sostenere i progetti predisposti per favorire il reinserimento sociale.

“La comunità cristiana e la società devono seriamente ripensare come offrire un aiuto. Alcune parrocchie hanno avviato nuove forme di assistenza più adeguate ai bisogni ed ai tempi… Per i primi tempi, specialmente con i più giovani, ci vorrà tolleranza e attenzione, perché non è facile ambientarsi, acclimatarsi, socializzare, passare dal carcere alla libertà,dall’ozio al lavoro,dalla sfiducia alla fiducia, dalla violenza alla ragione: è un salto di qualità che richiede molta pazienza.
Nessuna comunità dovrebbe lasciare inascoltate le invocazioni di chi chiede aiuto.”

Riconoscere il volto dell’uomo in ogni persona detenuta anche in coloro che a motivo dei reati commessi hanno reso i tratti del loro volto quasi irriconoscibili , “dare voce a chi non ha voce significa il riconoscimento dell’altro come persona, come essere sempre aperto ad ogni divenire possibile” . Dare voce alla marginalità non equivale a lasciarla esprimere così com’è, magari in forme stravaganti o distruttive. Vuol dire piuttosto favorire discretamente le sue evoluzioni sempre possibili, perché attorno ad essa si ricostituiscano quelle condizioni favorevoli all’esperienza umana, la cui mancanza ha spesso determinato il suo manifestarsi.

È attraverso questo lavoro che la società sarà sollecitata a considerare il carcere non come qualcosa fuori della società, ma come un suo luogo ed un suo territorio pur con le sue asprezze e drammaticità.





Giovanni Caso

Grazie, dott. Zinna, perché Lei ci ha presentato insieme un quadro complessivo della realtà penitenziaria e la complessità di questa realtà. Mi sembra che dobbiamo raccogliere il suo invito a tenere informata l’opinione pubblica di questa complessa realtà, di ciò che fanno tutti gli operatori istituzionali, perché è la società stessa che opera attraverso di loro.

Inoltre, Lei ci ha offerto una visione precisa e circostanziata della realtà penitenziaria, che giova a tutti, operatori e volontari, conoscere. Soprattutto è venuto in evidenza che la realtà del carcere, cioè delle persone che entrano in carcere e di cui ci occupiamo, è soltanto una parte limitata del fenomeno sociale più ampio, che è quello della trasgressione, della devianza sociale, del reato e della pena. Quindi, occorre avere la consapevolezza che noi ci occupiamo solo di una piccola parte di quelli che commettono reati e che, quando la nostra attività si dirige a queste persone, non dobbiamo dimenticare che ci sono molte altre più persone, circa 8 su 10, che commettono gli stessi reati e che sfuggono alla giustizia umana, e che perciò noi come operatori o come volontari mai incontreremo. Questa realtà ci deve far consapevoli che le persone che incappano nelle maglie della legge possono essere in collegamento o in contatto per varie ragioni e motivi con le altre più numerose che pure commettono reati ma rimangono ignote.

Questa visione complessiva del fenomeno della devianza sociale ci rende più accorti nello svolgere la nostra attività, ma anche ci dà maggiore possibilità di conseguire risultati positivi, conoscendo il contesto in cui le persone di cui ci occupiamo si sono trovate o si trovano.
Su questo sfondo ascoltiamo le comunicazioni di alcuni operatori istituzionali.

Comunicazione della dott. Anna Del Villano

(Direttrice Istituto Penitenziario)

Analizzando più da vicino quella che è la vita di un istituto penitenziario, ci accorgiamo innanzi tutto che esso già in sé, all’interno della Comunità Sociale, rappresenta una piccola comunità, formata dagli utenti e da tutti coloro che vi operano sia a titolo professionale che di volontariato.

Vogliamo soffermarci ora ad analizzare alcune delle figure istituzionali che lavorano all’interno del carcere, iniziando da quella del direttore.

Il direttore, figura professionale posta al vertice dell’istituto, ha la responsabilità dell’andamento generale del contesto lavorativo in cui opera. La qualifica dirigenziale di cui alla legge 27 luglio 2005, n. 154 è senz’altro la veste formale idonea all’esercizio di una molteplicità di attribuzioni che la normativa di settore individua come proprie del dirigente penitenziario. Come noto, infatti, ha la responsabilità dell’esecuzione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale disposti dall’Autorità Giudiziaria; è responsabile della sicurezza all’interno dell’Istituto penitenziario nonché di tutte le iniziative finalizzate al reinserimento sociale del detenuto, obiettivo costituzionale della pena; presiede il Gruppo di Osservazione e Trattamento, deputato, al termine dell’attività di osservazione scientifica della personalità, alla redazione del programma di trattamento individualizzato per ciascun detenuto; presiede il Consiglio di Disciplina che valuta gli aspetti disciplinari della condotta dei ristretti; svolge il ruolo di funzionario delegato per quanto concerne gli aspetti contabili; si occupa della gestione del personale, delle relazioni sindacali e del coordinamento dei volontari che operano nell’istituto.
Appare evidente, attesa la varietà di attribuzioni sopra evidenziate, come il dirigente penitenziario svolga una funzione di mediazione e di sintesi fra le diverse professionalità operanti all’interno dell’istituto penitenziario, ciascuna delle quali è chiamata a fornire uno specifico contributo tecnico al perseguimento dell’obiettivo istituzionale proprio dell’Amministrazione Penitenziaria.

Le diverse professionalità, unitamente al contributo del volontariato, compongono anch’esse una piccola comunità.

Pensando ad esempio al reparto di Rebibbia “Nuovo Complesso”, di cui mi occupo in qualità di direttore, che ospita attualmente circa 280 det. (prima dell’indulto erano 450), vi lavorano oltre a me,
- 7 Ispettori o Sovrintendenti di Polizia Penitenziaria;
- circa 60 tra Agenti e Assistenti di Polizia Penitenziaria;
- 3 educatori;
- 2 medici;
- 6 infermieri,
- diversi psicologi (alcuni dei quali si occupano dei det. Tossicodipendenti);
- 1 cappellano;
- alcuni datori di lavoro esterni (alcuni settori infatti, come ad es. la cucina detenuti, sono gestiti in appalto da Cooperative Sociali o da soggetti esterni all’Amm.ne);
- gli addetti all’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti Comunale e Regionale;
- i volontari delle diverse Associazioni.

Tutti questi soggetti devono lavorare per favorire quel percorso di ripensamento e di revisione del vissuto deviante intrapreso con la commissione del reato. La previsione di tante figure diverse discende dall’impossibilità per il singolo operatore di ottenere da solo dei risultati qualitativamente significativi; ognuno può aiutare il detenuto in una parte del proprio percorso ma è necessario il contributo di tutti.

Solo lavorando insieme, nel reciproco rispetto, e accettando il confronto con gli altri operatori si può pensare di avere un quadro completo di tutti gli elementi necessari ad assumere le decisioni più giuste per il singolo detenuto ed evitare strumentalizzazioni e personalismi.

Il confronto non è sempre facile in quanto la prospettiva di osservazione dei problemi che si presentano agli operatori è istituzionalmente diversa e c’è il rischio di ritenere il proprio punto di vista senz’altro migliore. Mi è capitato di recente in sede di riunione di equipe (le riunioni tra i vari operatori finalizzate a redigere il programma di trattamento nei confronti del detenuto) di avere delle convinzioni circa il percorso svolto da un detenuto, convinzioni peraltro condivise dall’educatore e dall’assistente sociali, ma che invece divergevano notevolmente da quanto sosteneva lo psicologo. Non sono mancati i momenti di difficoltà e di frizione; raggiungere una conclusione condivisa non è stato facile, ma il contributo apportato dallo psicologo ha attivato un processo di revisione delle singole posizioni che ha consentito di assumere una decisione più consapevole e condivisa.

Inoltre ci vuole umiltà per accettare il confronto. Durante un Consiglio di Disciplina, convocato per giudicare della lite intercorsa tra due detenuti era stata presa, su mia indicazione, una decisione analoga per entrambi. Terminato il Consiglio, un Ispettore di Polizia Penitenziaria (che, come figura professionale, non fa parte del C.d.D.) mi ha fatto osservare che la responsabilità fra i due non sembrava di pari entità. Riflettendoci sopra ho dovuto convenire che l’osservazione sollevata dall’Ispettore era corretta; il giorno dopo quindi ho riconvocato il Consiglio ed abbiamo deciso di modificare la decisione assunta. Superare il mio orgoglio professionale mi ha consentito di adottare una decisione più equa.

Per quanto concerne invece il rapporto tra operatori istituzionali e volontari, a volte si osserva una certa difficoltà nella relazione dovuta probabilmente ad un diverso angolo prospettico di osservazione e da una diversa prospettiva di partenza.

Lo scambio è però essenziale. I volontari ad esempio possono avere un osservatorio in certo senso privilegiato della situazione familiare e personale-affettiva dei ristretti dal momento che certe situazioni difficilmente vengono confidate agli operatori che rappresentano l’Amministrazione Penitenziaria e quindi l’Istituzione; d’altra parte i volontari non sono informati della situazione giuridica dei detenuti se non per quello che viene riferito loro dagli stessi interessati, quindi sono maggiormente esposti a strumentalizzazioni. Un confronto aperto e rispettoso può quindi consentire agli operatori istituzionali di assumere le proprie decisioni potendo disporre di tutte le informazioni necessarie e può evitare, oltre al rischio delle facili manipolazioni da parte dei detenuti, che ci siano delle sovrapposizioni non risolutive negli interventi dei diversi operatori.


La presenza dei volontari e della Comunità Esterna è poi rilevante anche in ragione del fatto che il carcere non può vivere senza un rapporto con la società.

Ciò è necessario proprio per realizzare il fine istituzionale del reinserimento sociale del detenuto. Si tratta di un percorso quanto mai delicato se si pensa che al momento della scarcerazione il detenuto può non essere pronto a tornare nella società, così come quest’ultima, specie a causa dei noti problemi occupazionali, può non avere molto da offrire ad un detenuto che potrebbe dover ricostruire completamente la propria vita.

Ne è stato un esempio l’indulto. Con una Legge che ha previsto un condono di pena di ben tre anni per la maggior parte dei reati ed è entrata in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione, ci siamo trovati di colpo a dover scarcerare centinaia di detenuti, molti dei quali non avevano alcun referente neppure alloggiativo. (A Rebibbia N.C. sono usciti nei giorni immediatamente successivi alla L. 241/06 circa 800 det.).

Nell’istituto di Roma Rebibbia N.C. l’emergenza è stata fronteggiata con l’ausilio di diverse Associazioni con le quali già da tempo esisteva un rapporto di fattiva collaborazione e che si sono rese disponibili ad offrire le proprie strutture di accoglienza e soprattutto ad indirizzare i detenuti su come muoversi e come accedere alle opportunità presenti sul territorio. C’è stato un vero lavoro a corpo: noi operatori interni, verificavamo quali detenuti avessero bisogno di accoglienza o comunque di assistenza distinguendoli da quelli che erano attesi dai familiari, indirizzando i primi verso gli operatori delle Associazioni che fornivano quindi le indicazioni necessarie. E’ stata un’esperienza che ha consolidato i rapporti con la Comunità Esterna ma anche il frutto di un cammino già in precedenza percorso insieme.

Sempre al fine di favorire l’accompagnamento alla dimissione, nel reparto di cui mi occupo stiamo costituendo una sezione che abbiamo chiamato “a trattamento avanzato”, destinata a detenuti con fine pena non superiore a tre anni su cui concentrare maggiormente gli interventi degli operatori istituzionali e non, allo scopo di rendere il tempo della detenzione proficuo e consentire al detenuto di acquisire competenze e professionalità spendibili all’esterno. In questo progetto, che è ancora in fieri, abbiamo coinvolto i diversi referenti della Comunità Esterna con cui già esiste un rapporto di collaborazione (es: Caritas, Comunità S. Egidio, Centro Orientamento Lavoro, Pronto Intervento Detenuti, Ser.T., Garante Comunali e Regionale…), che si sono resi molto disponibili e hanno fornito proposte ed indicazioni utili su cui stiamo lavorando insieme. In una recente riunione, quasi tutti hanno sottolineato l’importanza di lavorare insieme.

Alla luce di queste esperienze concrete emerge quindi la necessità di adoperarsi affinché un certo modo di operare, che coinvolga gli attori interni ed esterni al carcere, i referenti della Comunità Esterna e delle Istituzioni pubbliche, diventi sempre più la regola e si consolidi; soltanto in tal modo si può pensare di fornire una risposta seria all’obiettivo del reinserimento sociale del condannato.


dott. Anna Del Villano
Comunicazione di M. Gabriella Mezzetti

(Assistente Polizia Penitenziaria)

Ho sempre creduto profondamente nella possibilità del cambiamento, che in ogni persona esiste un potenziale ricco e illimitato da scoprire e coltivare, e che è possibile trasformare una vita di dolore e disperazione in qualcosa di diverso, di migliore. E' per questa motivazione di fondo che ho deciso di lavorare in ambito penitenziario come agente di Polizia Penitenziaria, una professione difficile che mi ha introdotta in un mondo misterioso, fatto di sofferenza e solitudine profonda, dove la difficoltà di conservare intatta la propria identità e dignità di uomo, è realtà vissuta.
Luogo chiuso e di disagio per eccellenza, in cui rinchiudere e nascondere agli occhi del mondo chi ha sbagliato, il carcere è terra oscura, dove il tempo e le cose assumono un diverso significato, dove la possibilità di perdersi e alienarsi è un pericolo quotidiano, dove gli stessi sentimenti vengono messi al bando per non sentirsi troppo male. Ma è anche un luogo d’incontro fra realtà diverse, è uno spazio fisico e mentale dove poter condividere esperienze reciproche, fatte dello stesso “male”, e dove poter trovare occasione di ripensamento e coraggio per riprogettare una vita nuova.
Nella prassi penitenziaria “sicurezza” e “trattamento” vengono concepiti come due diverse ma complementari modalità di gestione della comunità carceraria e delle risorse umane presenti. La Legge 395 del 1990 (Ordinamento del Corpo di P.P.) autorizza tutti gli operatori di polizia penitenziaria ad occuparsi, insieme alle altre figure professionali, dell’opera di trattamento e di rieducazione della popolazione detenuta, ma li relega nella sostanza, ad una mera funzione di controllo, nella quale si verificano a volte, casi di vera e propria conflittualità tra i due poli della diade.
Questi due aspetti della mia professione evidenziano una realtà particolare del sistema penitenziario. Forti emozioni, crisi, gioie e frustrazioni, sono spesso condivise dal detenuto proprio con l’agente di reparto, che per primo è reso partecipe dei vari eventi, testimone diretto delle varie dinamiche emotivo-relazionali della persona reclusa. Nel tempo, riferito ai mesi, agli anni di detenzione trascorsi insieme, il rapporto tra il detenuto e l’agente non è più lo stesso. Se l’opera di trattamento è andata a buon fine, la persona ristretta è diversa nei modi e nella sostanza dalla persona che ha commesso il crimine e la funzione/relazione professionale dell’agente si è andata modificando e strutturando sulla nuova personalità del detenuto. Può diventare allora quasi spontaneo invadere il campo dell’area educativa, alla quale è preposto altro personale, preparato e formato per questa specifica mansione.
Come operatore di polizia penitenziaria cerco costantemente di essere me stessa, mediando tra il mio sentire e il mio reagire, incoraggiata e sostenuta dalla profonda convinzione che l’essere umano cresce e matura, se adeguatamente aiutato e sorretto dall’uso di strumenti adatti.

Così, dopo molti anni di questo lavoro, è nata spontanea in me l’esigenza di trovare un nuovo momento di formazione professionale, che potesse offrirmi tecniche efficaci per il trattamento e la riabilitazione emotiva della persona reclusa. Ho portato a termine un master triennale in ArteTerapia, un diverso e innovativo approccio psicologico per il recupero della persona attraverso la capacità di comprendere i propri sentimenti e di gestirli in modo appropriato e consapevole. Ho sperimentato, con il consenso del mio Direttore e al di fuori dell’orario di servizio, un percorso terapeutico gratuito nel carcere di Velletri dove lavoro da più di dieci anni. L’esito è andato oltre le mie più rosee aspettative e si è dimostrato l’ulteriore e significativo strumento per entrare nella dimensione comunicativa del detenuto. Così ho dato la mia disponibilità per un altro corso nel carcere di Rebibbia ed ho intenzione di continuare portando il mio aiuto negli altri istituti del Lazio.
Il tempo e l’acquisizione di questi nuovi strumenti di crescita personale e professionale, mi hanno aiutata a comprendere e unificare i due aspetti del mio lavoro, quello strettamente repressivo, fatto di regole e divieti, e quello educativo, fatto di ascolto e sostegno delle fragilità umane, consentendomi di cogliere il senso più profondo della mia professione, finalizzato alla responsabilità e all’impegno verso l’uomo detenuto e la società comune.
E’ nell’integrazione con il mondo esterno che si identificano contemporaneamente la risorsa cui poter attingere e l’obiettivo da raggiungere. Così è compito di ogni operatore penitenziario e di quanti vogliano dare il proprio contributo come volontari, di far sì che anche le persone detenute possano provare sentimenti di fiducia e di rispetto, aprendosi all’altro e mostrandosi in modo vero e autentico senza paura. Questo vuol dire per noi abbandonare ogni pregiudizio e riqualificare la vita del detenuto alla luce della dignità umana, insita in ogni essere vivente, nessuno escluso.
L'obiettivo principale dell'insegnamento cristiano è proprio quello di creare pace e prosperità nel mondo, dando ad ogni persona la possibilità di trasformare la propria vita e indirizzarla verso il bene, verso la creazione di valore, attraverso un percorso graduale di "rivoluzione" interiore. Una persona che prega per una società pacifica e sicura, ed ha considerazione per gli altri, diverrà naturalmente conscia della necessità di contribuire attivamente alla collettività e agirà sulla base di questa consapevolezza
L’istituto penitenziario, con l’aiuto di tutti gli operatori interni e esterni, potrebbe allora trasformarsi in una vera e propria comunità educativa, passando finalmente da una cultura penale ad una cultura umana in grado di accogliere e contenere, di educare e sostenere, anziché escludere ed emarginare.
M. Gabriella Mezzetti

Comunicazione del dott. Diego Mansutti
(insegnante)

Dal 1981 ad oggi, assieme a mia moglie Serina, ho avuto la possibilità di operare nel mondo del disagio e dell'emarginazione in genere (handicap, extra comunitari, aiuti uma¬nitari). Da cinque anni ho la possibilità di operare nel settore della detenzione, insegnando nei cor¬si di aggiornamento, nella casa circondariale di Tolmezzo (Udine), carcere di massima sicurezza con sezione del 41 bis.

Questa nuova esperienza mi ha dato la possibilità di capire quanto queste problematiche sia¬no complesse e richiedono una profusione di risorse ed attenzioni ed una molteplicità di interventi che, pur differenziandosi nell'approccio, nei metodi, nelle assunzione di ruoli, rivelano la comune tensione verso la stessa finalità e cioè la riabilitazione umana e la pro¬mozione sociale dell' emarginato, del detenuto in questo caso.

Questa nuova esperienza mi ha fatto capire quanto sia importante la disponibilità ad a¬scoltare senza indifferenza, immedesimandomi nelle situazioni per comprendere i disagi personali e aiutare la persona a superarli.

Il carcere come funzione sociale ha un compito imposto e si dibatte tra alcune contraddi¬zioni ineliminabili. Deve da una parte tranquillizzare l'opinione pubblica e la società assi¬curando la segregazione di chi è stato riconosciuto colpevole; deve adottare misure di sicu¬rezza limitando la libertà personale; deve gestire periodi di vita del detenuto imponendo perentoriamente tempi, modalità e forzosi adattamenti che si avvertono come punitivi; deve assumere compiti e responsabilità che vengono espropriati alla persona detenuta; deve in tutto - nella struttura architettonica, nella organizzazione della vita interna, nell'imposizione delle caratteristiche ambientali - esprimere un linguaggio, una nomencla¬tura che lo evidenzi e configuri come luogo di pena, di emarginazione e di castigo.

Deve, allo stesso tempo, riuscire a conciliare la segregazione, la pena, la detenzione con la riabilitazione della persona detenuta; lo stesso luogo di pena deve essere luogo di tratta¬mento e rieducazione; deve sollecitare la persona detenuta ad acquistare autoconsapevolez¬za, autodeterminazione, autonomia; deve lo stesso luogo di segregazione essere luogo di risocializzazione.

Ho cercato, avendo la possibilità di operare, oltre alle cognizioni del mio insegnamento nozionistico di cui devo occuparmi, di esprimere quel patrimonio culturale, sociale e di fede, maturato con il mio essere volontario e diacono, nonchè la mia esperienza fatta nel mio quotidiano vivere, in mezzo agli handicappati, emarginati, lavoratori extraco¬munitari, e persone a rischio.

Decisi di vivere con questi fratelli le parole del vangelo di Giovanni 15,9; 12; 13. “Come il Padre ha amato me così io ho amato voi. Restate nel mio amore. Ecco il mio comandamento: Amatevi gli uni e gli altri come io vi ho amati. Non c'è amore più grande che dare la vita per i propri fratelli”. Questo mi aiutò molto a vedere nei fratelli carcerati il volto di Cristo, per cui dovevo interessarmi dei loro problemi, delle loro difficoltà, delle loro speranze nel futuro, dei loro rapporti con il mondo del lavoro, della quotidianità, delle esigenze personali, ecc.
Tramite varie azioni umanitarie riuscii a far arri¬vare lo stretto necessario per diversi, alleviando così il loro essere nel dolore. Riuscii a te¬nere una corrispondenza molto fitta, alleviando così la sofferenza in cui ogni persona emar¬ginata si trova per sentirsi esclusa, senza valore, non amata.

Ultimamente ho fatto da padrino alla Cresima di un detenuto che quasi quotidianamente mi scarica tutte le frustrazioni e problematiche della sua difficile esistenza.

Parecchi alla fine della pena ven¬nero inseriti nel mondo del lavoro, con l’aiuto di amici imprenditori, che vivono la spiritualità di C:L:
Delle tante bellissime lettere ricevute da questi fratelli, vorrei nel breve spazio che mi resta darvi qualche breve passaggio: “... .ultimamente ca¬ro... .con tutte le cose che mi sono capitate, mi sono chiuso in me stesso, e non mi veniva neanche voglia di uscire dalla cella e volevo farla finita, avevo perso la speranza, ma la tua bellissima lettera e le tue parole mi hanno fatto riprendere.
Un altro: “. ..comincio con i miei ringraziamenti che non hanno nè inizio nè fine, stavo davvero con un cuore ferito ma lei mi ha fatto una carezza con amore che mi ha fatto rinascere il cuore.. . “.
Tanto si può fare con poco per questi nostri fratelli nel dolore, basta vedere in ognuno di loro il volto di Gesù abbandonato e agire di conseguenza.
Con sofferenza ho vissuto l’indulto, perché i miei allievi, che erano extracomunitari, a cui avevo assicurato l’inserimento lavorativo, sono stati estradati ai loro paesi di origine. Quante lettere e telefonate di disperazione da questi poveretti che hanno visto svanire tutti i loro sogni e aspettative.
Tantissime cose si potrebbero dire, perché l’esperienza che quotidianamente sto facendo è grandissima e purtroppo è anche segnata oltre che dalla sofferenza dei detenuti, anche da parecchi episodi di intolleranza e di cattiveria da parte degli addetti ai vari servizi di sorveglianza. Noi dobbiamo guardare al positivo e la nostra forza sta nel carisma di Chiara che ci deve far vedere in tutti questi fratelli il volto di Cristo abbandonato.

dott. Diego Mansutti

Comunicazione di padre Antonio Bagnulo

(Cappellano negli Istituti di pena)


Sono p. Gianfrancesco (Antonio Bagnulo) cappuccino, cappellano del carcere di Viterbo, ormai dal 2000
Quanto cercherò di esporre è frutto di considerazioni senz’altro personali ma condivise con altri cappellani e volontari che operano da molto più tempo nel mondo del carcere.

Io debbo parlarvi del ruolo del sacerdote nel mondo del carcere. Credo che sia necessario fare degli accenni sulla realtà carceraria.
Cominciamo con il chiederci chi è il detenuto.

Il detenuto o carcerato, o ristretto, per non ripetere sempre un termine dalle connotazioni negative, è un cittadino, privato temporaneamente della libertà e dei diritti civili e giuridici. Questa situazione pone la persona colpita da una condanna penale in una posizione di inferiorità civile e culturale, se si può dire così, di fronte alla società intera, che di fatto la fa sentire giudicata come nemica dell’ordine costituito.

Il detenuto è un uomo che ha la stessa nostra dignità di persona, indipendentemente dalle sue azioni e dal suo vissuto. Dobbiamo dire che nell’accezione normale dei “mass-media”, e anche della mentalità comune, il carcerato è una persona che forse fa paura, e che noi emarginiamo, perché immedesimiamo la sua persona colle sue azioni e anche noi facciamo fatica a distinguere la persona nel suo valore, nella sua dignità, dalle sue azioni.. il cui giudizio è ovviamente negativo

Però identifichiamo! Invece dobbiamo fare lo sforzo, la fatica di distinguere.
Dovremmo avere sempre presente il valore insopprimibile della persona del carcerato e della sua dignità. In quanto tale voi capite che come persona mantiene dei diritti inalienabili che sono quelli del rispetto, della stima e nonostante tutto della fiducia.

Se io ho davanti una persona che, per esempio, ha ucciso i suoi genitori, e lì a Viterbo ce ne sono stati per lo meno due, e dire che io debbo dare fiducia a questa persona, può sembrare provocatorio, ingiusto, sbagliato, ma il rapporto con un detenuto è vero, autentico da parte mia e costruttivo per lui, il rapporto è valido, se semplicemente sono capace di andare al di là del giudizio sul tipo di reato che ha portato quella persona in carcere, se il pregiudizio che mi sorge spontaneo, io lo riesco veramente a spostare, se mi libero da tutto ciò che mi può condizionare negativamente nei suoi riguardi per farmi uno con lui e con quanto vive egli attualmente. Io così riesco veramente a giovare a queste persone.
Questo per comportarmi io in modo positivo nei suoi riguardi e così che senta la mia stima, senta la mia fiducia e si apra sino a manifestarsi non tanto per quello cha ha fatto, ma per quello che vorrebbe essere al di là di tutto quello che ha combinato.

E qui non si tratta d’una malattia oncologica o di una deformità congenita o procurata o altro; qui si tratta veramente d’una alterazione culturale dei criteri di valutazione dell’esistenza, dei criteri con cui valutare la vita propria e altrui. Si ha a che fare con gente pluriergastolana, ché ha concorso in stragi, ha eseguito vari omicidi, gente che ha contribuito a mettere sul lastrico altri credendosi furba, oppure gente che ha commerciato droga e che non si rende conto che ha concorso a dare la morte, semmai giustificandosi perché doveva “campare” la famiglia oltre che viziare se stessa.
Ma … in realtà dietro quei nomi, dietro quei volti, nella storia di quelle persone c’è un vissuto ed esperienze che veramente noi non conosciamo in tutto il loro condizionamento negativo, che se non li giustifica totalmente richiede comprensione e tanta paziente disponibilità di attenzione e aiuto in tutto ciò che è positivo per lui.

Quanto fin qui detto non è propriamente vangelo, cioè tutto ciò forse può un atteggiamento positivo per chiunque accosti queste persone, ma per noi cristiani deve sempre emergere e fare da guida ad ogni nostro approccio con il prossimo, soprattutto con questi particolari fratelli detenuti, la considerazione dell’individuo come persona, come un figlio di Dio, sfigurato forse come lo era Cristo in croce, come Lui quando ha gridato “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”, ma da amare, fino forse a riuscire a recuperarlo alla sua più propria dignità di persona e di figlio di Dio quando è possibile.

Il sacerdote è animatore di questa visione, di questo stile di comportamento, di cui cerca di farsi testimone, espressione, con tutti i suoi collaboratori, non solo nei riguardi dei detenuti ma anche nei riguardi del personale che operano a contatto diretto o indiretto coi loro.
E poi fin dove e quando si può cerca di portare questo modo di considerare la realtà carceraria ai responsabili e al personale degli gli Enti che sono preposti a questo servizio, alle comunità parrocchiali, agli insegnanti e alle scolaresche, ed infine ai detentori dei “mass media” che tanta parte hanno nel determinare la mentalità comune e la capacità di suscitare attenzione positiva e propositiva delle masse.

Il sacerdote ha un compito preciso e specifico tra il popolo di Dio e verso ogni uomo: portare il messaggio di Gesù, della misericordia del Cristo a tutte le categorie di persone, credenti e non credenti, cristiane o meno, vicine o lontane dalla pratica del cristianesimo.
Per tutti quest’uomo è chiamato a donarsi per testimoniare l’attenzione di Dio per la felicità e la salvezza eterna di chiunque egli può avvicinare.

Ed qui la sfida, l’impresa del cappellano nell’ambiente carcerario: essere una presenza, un testimone della fede nell’immenso amore di Dio per ogni uomo, così com’è, al di là di ogni altra considerazione umana o moralistica tra persone che hanno un esperienza di vita trascorsa lontana dai dettami della propria coscienza e del vangelo.

Nelle carceri italiane oggi, come nella maggior parte delle carceri dei paesi occidentali, la popolazione ristretta è composta da persone provenienti da tutte le parti dl mondo, letteralmente da tutti i continenti. Ovviamente s’incontrano persone di razze e culture diverse, in particolare di fedi diverse: cattolici ed ortodossi, ebrei e musulmani, buddisti, testimoni di Geova ed atei, e non praticanti di ogni fede …

Il cappellano è chiamato ad operare tra queste persone per le quali deve sapersi prestare ad ottemperare esigenze le più svariate, date le condizioni di diversi tipi di limitazioni cui è soggetto il detenuto.
Sono proprio le condizioni di limite cui sono sottoposti i detenuti che, agli occhi dei gli stessi, fanno attribuire al cappellano un ruolo, una figura un po’ speciale, oltre le righe, in un ambiente ove tutto è “misurato”, preordinato e stabilito, burocraticizzato alle volte sembra in modo oppressivo.

In questo quadro della situazione penitenziaria, anche più complessa di quanto accennato, l’opera del cappellano può abbracciare non solo l’ambito più proprio, del ministero strettamente sacerdotale, ma giunge ad estendersi a quell’azione tipicamente caritativa dell’apostolato cattolico, in nome della concezione cristiana della fraternità universale, cioè a sovvenire alle necessità più disparate dei bisognosi, in questo caso i detenuti, e in specie là ove l’amministrazione penitenziaria lascia dei vuoti.

A questo punto si può facilmente capire che è un fatto ricorrente che i detenuti si rivolgono al cappellano per ogni tipo di necessità, anche per cose alle quali non può sempre soddisfare, per rispettare i termini consentiti dalla Legge.


A questo campionario di necessità risponde il volontariato, più o meno organizzato a seconda della situazione dei vari Istituti di Pena, che costituendo una rete di persone, anche esperte nei vari campi e professionalmente preparate, che possono coadiuvare all’interno o dall’esterno in modo diretto o indiretto, saltuariamente o con continuità, e che cercano di rispondere in collaborazione col cappellano ai vari problemi dei detenuti indipendentemente dalla considerazione della fede religiosa, o della nazionalità o di qualsiasi altro criterio…

Ove è organizzato in associazione, come da 30 anni il GAVAC a Viterbo, ove mi trovo e di cui sono l’assistente ecclesiastico, il volontariato opera in modo autosufficiente anche se in strettissima collaborazione col Cappellano, aiutandolo nei colloqui, che sono la cerniera dei rapporti con i detenuti, portando avanti l’insegnamento per le scuole superiori, occupandosi delle pratiche burocratiche dei vari documenti o delle pratiche pensionistiche, organizzando corsi di vario artigianato, offrendo lavoro con una cooperativa agricola in un tenimento agricolo offerto dal Comune di Viterbo, ma gestito dal GAVAC, accogliendo i famigliari in visita e/o i detenuti in permesso nella Casa di Accoglienza messa a disposizione del GAVAC anche questa dal Comune di Viterbo.

Debbo dire che l’assistenza caritativa all’interno del carcere è possibile grazie ad una cospicua donazione annuale da parte del Vescovo e dalla Caritas Diocesana, di cui si fanno poi operatori i volontari del GAVAC a nome del Cappellano.
In questo modo il volontariato, con questo spirito evangelico di collaborazione si fa come lunga mano, si fa lingua e cuore del Cappellano, di questo atteggiamento caritativo della fede cristiana verso chiunque ha bisogno pur se nei limiti delle possibilità.
Ed è con questo spirito che la stessa Caritas di Viterbo già da qualche anno impegna le comunità cristiane delle parrocchie della Diocesi a raccogliere vestiario e generi d’igiene ed altro ancora nei tempi forti dell’Avvento e della Quaresima.

C’è poi una forma di collaborazione del volontariato specifica, propriamente religiosa, ed è quella dei vari catechisti che, in comunione con il Cappellano, riportano il suo animo e moltiplicano la sua parola nelle varie sezioni del carcere (di solito incomunicabili tra loro). Incontri di catechesi, di preparazione ai Sacramenti, e non di rado anche colloqui spirituali molto proficui,

Però se è vero che il sacerdote è la figura che per “professione”, ovunque si spende per sollecitare e agire secondo uno spirito di comunione con dedizione altruistica e gratuita, posso testimoniare che ho riscontrato questo atteggiamento disinteressato e fattivo, ed altruistico, in tante persone non direttamente collegate con la cappellania cattolica, che, anche se con altre ideologie o indirizzi politici, o semplicemente non vicine alla Chiesa Cattolica, sono disposte e di fatto sono impegnate a collaborare per il bene dei detenuti. E questa è l’esperienza che si fa a Mammagialla, almeno in alcuni settori e nei riguardi di alcuni ristretti

Voglio narrarvi alcune esperienze di cui sono testimone, frutto per la maggior parte di collaborazione tra i vari operatori nel carcere di Viterbo e che credo fermamente tutti strumenti dello Spirito Santo per le meraviglie che si sono operate.

Ninino è stato arrestato innocentemente, e detenuto per 4 anni. E’ stata la forza dalla fede a fargli non solo accettare questa ingiustizia ma ad impegnarlo ad aiutare i compagni a superare gli alterni momenti di ribellione e scoraggiamento dei compagni. Il rapporto vivo col cappellano lo ha alimentato in questa fatica di andare controcorrente e di testimoniare di fronte a tutti, senza atteggiamenti di distacco o di superiorità, la luce della sua coscienza della sua fede. Quando è uscito il rapporto è continuato a lungo, sempre profondo e vitale.

Vittorio ha frequentato gli incontri dei neocatecumenali con serietà, riscoprendo prima il senso autentico della fede e poi cercando di approfondirla personalmente chiedendomi testi dei Padri della Chiesa, fino volersi scrivere inscrivere ad una scuola di teologia per laici per corrispondenza. Ha potuto seguire i corsi del primo anno, non escludendo l’idea della consacrazione; poi trasferito ha dovuto sospendere. Il cappellano del nuovo Istituto mi dice sempre che è rimasto fedele e praticante.

Ricordo un killer, Geppy, che dopo otto anni di caporalato anche in carcere, ove si è distinto come ribelle indomabile, sollecitato con letture e colloqui da un’insegnante che aveva colto il lavoro di Dio in lui, ha voluto cominciare a frequentare la S. Messa, gli incontri di catechesi, fino a chiedere di ricevere il Sacramento della Cresima preparato da una suora che ha inciso nel suo animo, completando il percorso con tre giorni di ritiro spirituale animati da me nel carcere. Si è rivelato a se stesso come una persona attenta alla Spirito Santo in lui. Ricordando il suo passato afferma che non entrava in Chiesa perché sapeva che non poteva offendere il Signore con la sua indegnità. Oggi è un leader molto positivo tra i compagni.

Lionello, ha ringraziato la Provvidenza di averlo fermato nel suo efferrato delinquere con la carcerazione, e di avergli fatto incontrare una suora volontaria in carcere che lo ha aiutato a rientrare in se stesso e a maturare una sincera conversione. Oggi chiede la guida spirituale per crescere nella comunione con il Signore.

Gianni e Luciano, compagni di cella dopo alcuni colloqui con il cappellano, nonostante le difficoltà dei compagni di reparto, si sono aiutati a frequentare la catechesi, guidata da un volontario che li ha portati a rifare una scelta di vita morale cristiana.

Uno spacciatore di droga proveniente da un paese extra europeo, accompagnato da due suore catechiste nel cammino di recupero della verità piena della fede cristiana, accetta e vive la carcerazione non solo come giusta punizione del malfatto, ma come un’occasione speciale che il Signore gli offre per aiutare tanti compagni di sventura a riprendersi da uno stato di abbandono psico-morale, consapevole che egli può giungere nelle pieghe dell’animo dei compagni come nemmeno il sacerdote riesce ad arrivare, felice di essere così un iniziale strumento della misericordia di Dio per molti

Vari ergastolani confidano che accettano la loro situazione di “finepenamai” come espiazione dei loro delitti, in una ritrovata pace con Gesù mantenendo una esteriore imperturbabilità che li preserva da discriminazioni e ritorsioni da parte dei compagni, ma ormai fedeli alla legge di Dio..

Un’ultima nota: se ci mantiene attenti al positivo che pur traspare in mezzo a tante sofferenze, si può cogliere che negli animi anche di chi ha compiuto i più efferati delitti lo Spirito Santo apre sovente una breccia che l’amore paziente e fiducioso di coloro che si sforzano di “servire” questi fratelli fa sbocciare e fruttificare.

Da quanto si è cercato di dire il ruolo del cappellano si profila come quello di chi, oltre che offrire il servizio specifico sacerdotale, della predicazione e dei sacramenti, deve saper essere l’animatore ed il tessitore di una rete di rapporti improntati a creare unità di intenti e ad una condivisine di sforzi fra tutti, dagli operatori all’interno del carcere ai responsabili delle istituzioni, tutti tesi a far vivere l’esperienza di un corpo, della società come una “famiglia” che si fa attenta alla crescita umana, psicologica e sociale e spirituale di ogni suo membro a prescindere dalle situazioni più disparate in cui possono trovarsi, per l’autentico benessere delle singole persone e dell’intero consorzio civile ed ecclesiale.


padre Antonio Bagnulo


Comunicazione della dott. Maria Pacca

(Assistente sociale)


Mi sembra doveroso fare un distinguo tra la figura dell'assistente sociale del settore minorile e quella del settore adulti. Io mi occupo del settore adulti per cui ho maggiore competenza in tale campo.
Gli assistenti sociali del settore adulti sono inseriti ed operano negli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (U.E.P.E.), gli ex C.S.S.A.(Centri di Servizi Sociale per Adulti), denominazione recentemente modificata dalla legge Meduri.
La costituzione dei CSSA, ora UEPE, è avvenuta formalmente con la Legge di Riforma Penitenziaria (Legge n°354 del 26.07.75), il cosidetto Ordinamento Penitenziario. Tale Legge ha posto come principi fondamentali del sistema penitenziario italiano l'umanizzazione della pena e la risocializzazione del condannato, in attuazione dell’art. 27 della Costituzione.
La Legge di riforma penitenziaria ha introdotto nel sistema penale e penitenziario italiano le misure alternative alla detenzione e per quanto riguarda il settore adulti anche gli Assistenti Sociali, figure che per la loro specifica professionalità sono chiamate ad operare a livello individuale-istituzionale-sociale e a promuovere processi di responsabilizzazione, di partecipazione e di autonomia gestionale dell’individuo e della comunità locale.
Per definire i compiti e le funzioni affidati dalla normativa agli Assistenti Sociali degli UEPE è necessario far riferimento ad alcuni articoli dell'Ordinamento Penitenziario, del Regolamento di Esecuzione, delle norme per il reinserimento dei tossicodipendenti (DPR 230 del 30.6.2000). L'assistente sociale penitenziario opera all'interno e all'esterno degli Istituti penitenziari, con il ruolo importante di anello di congiunzione tra il sistema penale e penitenziario ed il territorio inteso come comunità locale.
All'interno dell'Istituto penitenziario l'assistente sociale partecipa all'èquipe di osservazione e trattamento, che consiste in un periodo di Osservazione scientifica della personalità da parte dei componenti dell'èquipe costituita oltre che dall'assistente sociale, da altri figure professionali (Direttore, educatore, esperto psicologo, medico, polizia penitenziaria, cappellano) per accertare ciascuno secondo le proprie specifiche competenze, le esigenze di ciascun condannato e internato nei vari aspetti biologici, psicologici e sociali, attraverso un lavoro interdisciplinare ed interprofessionale. In particolare l'assistente sociale, porta un contributo specifico per la comprensione dei collegamenti esistenti e di quelli realizzabili in futuro tra la condizione attuale del soggetto ed i suoi problemi famigliari e sociali.

Ancora l'assistente sociale svolge inchieste sociali, consistenti nel dettaglio in una raccolta di dati conoscitivi della situazione personale, socio-familiare e lavorativa della persona detenuta attraverso colloqui con l'interessato e tutti gli ambiti che abbracciano la persona nella sua globalità, che verranno riportati, attraverso una relazione socio-familiare, in sede di équipe in cui avverrà un confronto con le altre figure professionali che a loro volta riporteranno dati specifici relativi alla competenza di ognuno. Tutti gli elementi raccolti faranno parte di un'unica relazione di sintesi che verrà trasmessa alla Magistratura di Sorveglianza sia monocratica (Magistrato di Sorveglianza) che provvederà all'approvazione del piano di trattamento, e alla eventuale concessione dei benefici di legge dei quali è competente, che al Tribunale di Sorveglianza in relazione alla eventuale concessione delle misure alternative previste dalla normativa vigente.
Continuando, in breve, sempre all'interno degli Istituti penitenziari, l'assistente sociale partecipa alle Commissioni costituite per trattare alcuni problemi organizzativi e regolamentari della vita del carcere come la Commissione per il Regolamento interno dell'Istituto, quella per la selezione di libri e periodici per la biblioteca, quella per le attività culturali ricreative e sportive e di recente istituzione quella per la stesura del Piano Pedagogico. istituzione quella per la stesura del Piano Pedagogico.
All'esterno degli Istituti penitenziari, l'assistente sociale, operativa come già detto all'interno degli UEPE, svolge inchieste sociali su richiesta della Magistratura di Sorveglianza in relazione alla eventuale concessione delle misure alternative alla libertà e per l'applicazione, modifica, proroga e revoca delle misure di sicurezza.
Rispetto alla misure alternative alla detenzione (affidamento, semilibertà, detenzione domiciliare) mi soffermerei sull'Affidamento in prova al Servizio Sociale, considerato il beneficio più ampio. Durante tale periodo, detto appunto di prova, la persona, se ristretta torna in libertà, o dalla libertà stessa, viene affidata all'assistente sociale dell'UEPE, previa decisione del Tribunale di Sorveglianza competente, che emette un'Ordinanza con una serie di prescrizioni alle quali la persona deve attenersi. In tale percorso la stessa viene seguito dall'assistente sociale penitenziaria che ha il duplice compito, particolarmente complesso e delicato, di "controllare" la condotta del soggetto e di "aiutare" lo stesso a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, anche mettendosi in contatto con la famiglia, l'Ente Locale ed ogni altro ambiente frequentato dallo stesso ed utile al processo del suo reinserimento (lavoro, Servizi specifici quali SIM, Ser.T.), in un lavoro di rete finalizzato all’obiettivo comune del recupero della persona.
L'assistente sociale riferisce periodicamente al Magistrato di Sorveglianza notizie sul comportamento dell'affidato, proponendo, se necessario, la modifica delle prescrizioni o anche la revoca della misura, quando il comportamento dell'affidato è contrario alle prescrizioni e non partecipe al processo di revisione e recupero.
Rispetto alle altre misure alternativa alla detenzione, nella semilibertà il compito dell’assistente sociale è di vigilare ed assistere il soggetto nell’ambiente libero, aiutandolo a superare le difficoltà di inserimento nell’ambiente lavorativo e socio-famigliare.
Nella detenzione domiciliare l'assistente sociale stabilisce validi collegamenti con i Servizi territoriali assistenziali al fine di fornire alla persona l'aiuto per superare le difficoltà connesse con l’esecuzione della detenzione domiciliare.
Anche nell'applicazione ed attuazione della libertà vigilata, l'assistente sociale nei confronti dei soggetti sottoposti a tale misura, svolge interventi di sostegno ed assistenza al fine del loro reinserimento sociale.
Gli assistenti UEPE svolgono gli interventi professionali per mandato istituzionale anche nei confronti di coloro che si trovano detenuti per reati commessi durante la minore età, ma che eseguono la condanna tra i 18 e i 21 anni, per cui spesso si incontrano giovani adulti che vivono l'esperienza del carcere in un'età in cui è ancora in formazione la loro personalità per cui l'intervento trattamentale è ancor più mirato e delicato.
Dopo tale esposizione del ruolo dell'assistente sociale, comunque abbreviata ed essenziale nei suoi aspetti istituzionali, qualche cenno su come vivo tale ruolo istituzionale da ormai 22 anni, alla luce della spiritualità dell’unità che è parte della mia vita fin dall’età adolescenziale.
Tanti i momenti di buio, ma anche di luce, in una spirale che tende sempre a salire e risalire ogni volta che si incontrano le difficoltà che ostacolano il cammino.
All'inizio della mia attività spesso mi sono chiesta cosa ci facevo in tale posto e come poter coniugare l'amore a Dio, al fratello, con un ruolo così istituzionale e determinato. Pur applicando, in maniera professionalmente corretta ed adeguata al sistema, il mio ruolo, l'aver scelto Dio attraverso il fratello mi ha spesso posto di fronte al bivio di come far passare il Suo Amore senza cadere nel buonismo, e senza mettere in dubbio da parte della persona condannata il riconoscimento del mio ruolo istituzionale. In realtà poi mi sono resa conto che non vi è stato un vero e proprio passaggio, che, anche se oggi ho una maggior esperienza grazie agli anni di lavoro, ho sempre cercato, sin dall'inizio della mia attività, di trasmettere alle persone che incontravo, pur essendo nel ruolo istituzionale che mi imponeva di dare direttive precise, il riconoscimento della persona che avevo di fronte, in una tacita alchimia nella quale la parola reciprocità assume un senso e un significato, senza mai far perdere di vista il rispetto reciproco.
Nel mio lavoro cerco di riconoscere l'altro in quanto individuo, per cui portatore di diritti e di doveri. L'ascolto, la partecipazione, il coinvolgimento ed altro, tutte tecniche del Servizio Sociale che assumono una dimensione di gratuità non solo perchè sancite dalla legge, ma perché trasmesse con l’anima e con quell’Amore che tutto trasforma.
Chi ha sperimentato la scelta di Dio, sa cosa vuol dire sentirsi folgorati dalla sua luce e se ci buttiamo a viverlo avviene nella nostra anima come una conversione, un cambiamento radicale di vita. Dio viene messo al primo posto. Amiamo senza limiti ed amando ci radichiamo in Dio. Ed è così che quasi senza accorgercene inizia il cammino verso di Lui.
Amo molto degli Scritti Spirituali di Chiara quella parte in cui parla del Vangelo come di una "bella avventura ", in cui " ti trovi di colpo come sul crinale di una montagna, già in alto, quindi già in Dio, e la vita per te è camminare lungo lo spartiacque, fino alla fine.
Quindi rimanere nell'amore e crescere nella carità attraverso un’unione con Dio che va coltivata continuamente per affrontare le continue cadute e ricadute della vita credendo sempre nel suo Amore per ricominciare sempre, anche quando rivestiamo ruoli che apparentemente possono sembrare direttivi, ma che se svolti con Amore possono produrre segni positivi e di riconversione che magari non sono visibili nell'immediato, ma che lasciano un seme che produrrà i suoi frutti.

dott. Maria Pacca

RELAZIONE del dott. SALVATORE NASCA

(Direttore dell’UEPE di Livorno)


“L’attività esterna al carcere e l’apporto della comunità in tale ambito”



 Carcere e Comunità, o meglio Pena e Comunità sociale

• Raccogliendo le esperienze dei diversi operatori penitenziari e dei volontari, è emerso come il rapporto carcere - comunità assume un rilievo crescente sia ai fini del trattamento sia ai fini del reinserimento sociale.
• In altri termini, ci sembra che l'intera realtà penitenziaria vada compresa nel rapporto carcere - comunità.
• Quando diciamo realtà penitenziaria includiamo non solo il carcere ma anche le misure alternative al carcere, ed infine anche ciò che va fatto per il reinserimento di quelli che hanno finito la pena.
• Fino ad oggi la giustizia penale è stata prevalentemente vista e attuata entro il rapporto tra stato - istituzione e reo.
• Anche il sistema penitenziario è visto in questo rapporto; e ciò perché il reato è ancora prevalentemente visto come “semplice” violazione dell’ordine giuridico.
• Oggi però si va prendendo coscienza del ruolo della vittima e della società: è la comunità infatti che viene offesa dal reato, insieme alla vittima, e pertanto soffre le ferite inferte dai delitti; da qui la necessità di considerare il reo in rapporto non solo alla norma impersonale ma anche alla vittima ed alla comunità.
• Perciò la società non può sentirsi estranea o indifferente sia rispetto al reato sia rispetto all’autore dello stesso.
• Ed anche la punizione così come il trattamento devono perciò essere sentiti dalla società come cosa propria.
• Proprio in questo nuovo quadro si possono comprendere meglio e portare ad effetto la sensibilizzazione ed il contributo della comunità, da tutti auspicati.
• E da qui anche lo sviluppo dell’idea e delle esperienze di giustizia riparativa.
• In questi anni è cresciuta la consapevolezza che il contesto sociale sia il luogo d’origine e di espressione delle situazioni problematiche e devianti ma anche la sede di realtà sociali (enti locali, volontariato, famiglia, associazioni, ecc.) che, valorizzate e coordinate, possono trasformarsi in risorse preziose per un recupero alla vita sociale.
• Di conseguenza ci si è mossi in tanti cercando di stabilire i migliori collegamenti possibili tra sistema penitenziario e territorio al fine di promuovere il recupero ed il reinserimento sociale dei soggetti in esecuzione penale.
• Anche la Legge 328/00 di riforma dei servizi sociali ha rafforzato le spinte a sviluppare una più intensa collaborazione, stabilendo che i Piani di zona prevedano interventi specifici per i soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria da programmare con gli organi periferici dell’Amministrazione Penitenziaria (Istituti penitenziari e Uffici Esecuzione Penale esterna).
• Ci sono perciò, sparse ormai su tutto il territorio nazionale tante esperienze di collaborazione con la comunità locale ed i servizi del territorio, che si possono così sintetizzare brevemente:
o Lavoro di rete con i servizi: Sert - Servizi Sociali – Associazioni – Enti Locali – Forze dell’Ordine – Centri per l’Impiego – Unità operative salute mentale, ecc.
o Progetti Ministeriali, Europei, Regionali, del Fondo Antidroga e dei Piani di zona, con Enti Locali, Terzo settore, ecc.
o Per es.: Progetto Equal in collaborazione con le Province, che ha attivato percorsi formativi e di inserimento lavorativo con frequenti assunzioni a fine progetto
o Convenzioni e protocolli per:
- programmazione integrata (es. con le Conferenze dei Sindaci, ecc.)
- percorsi di accompagnamento ad opportunità formative, lavorative e di aggregazione sociale
- centri e servizi (sportelli informativi, consulenza legale, ecc.)
- assistenza (famiglie, permessi – premio, ecc.)
- trattamento congiunto dei tossicodipendenti e alcooldipendenti in esecuzione penale
• L’aumento delle misure alternative ha fatto crescere la collaborazione del volontariato anche nel campo dell’esecuzione penale esterna
o nel Luglio del 2003 una Convenzione tra la Direzione Generale Esecuzione Penale Esterna e la Conferenza Nazionale del Volontariato
o è anche cresciuto il numero di assistenti volontari ex art. 78 o.p. presso gli UEPE, oltre che presso gli istituti di pena.

Raccordi carcere – comunità sociale. Punti di forza e criticità

• Se è vero che l’integrazione con le risorse del territorio è da tempo una realtà concreta e positiva, come testimoniano numerose esperienze, è anche vero che la situazione attuale si presenta molto diversificata
• Ci sono zone dove il rapporto carcere – comunità è quasi inesistente, altre dove è conflittuale, altre dove c’è uno stretto collegamento, o comunque dove la comunità partecipa attivamente con diverse iniziative.
• Le difficoltà prevalenti sono ancora tante, tra cui in particolare:
• Diffusa difficoltà a trovare un inserimento sociale e lavorativo effettivo,
o atteggiamenti di resistenza e di chiusura, di diffidenza e scarsa sensibilità
o rischi di assistenzialismo
o Crescente prevalenza delle esigenze di sicurezza e di controllo
o difficoltà specifiche degli operatori, demotivazione
• Nonostante anche queste ed altre difficoltà, l'impegno di operatori, volontari, amministratori, gruppi, ecc. ha reso e rende possibile la positiva realizzazione di tanti concreti percorsi di reinserimento sociale, terapeutico e lavorativo realizzati insieme.

 Sicurezza ed Insicurezza

• Strettamente collegato al tema del rapporto tra carcere e pena da una parte e comunità sociale dall’altra, c’è il tema della sicurezza sociale.
• Se infatti si diffonde la condivisione della ricerca di forme di pena e di recupero diverse dal carcere, contemporaneamente registriamo un rafforzamento della domanda di sicurezza da parte della gente.
• Quando da equlibrata domanda di sicurezza si trasforma in allarme sociale, aumenta l’intolleranza, la richiesta di repressione, e di chiusura anche degli spazi offerti dalla riforma penitenziaria.
• Questa domanda non dipende in realtà tanto dalla gravità o dalla frequenza degli eventi, quanto da una diffusa percezione soggettiva d’insicurezza. Al di là dei dati, ha tuttavia delle ragioni che non vanno ignorate ed è comunque una realtà essa stessa da considerare con attenzione.

 L’indulto

• In questo contesto è arrivato l’indulto, che ha modificato la situazione, portando effetti positivi, ai detenuti ed alle carceri, ma anche problemi di vario tipo, a partire dalla crescita dell’allarme sociale, per finire a quelli più seri delle condizioni a volte drammatiche in cui tanti ex detenuti si sono venuti improvvisamente a trovare, senza più l’appoggio dei servizi e della rete di sostegno collegata.
• Istituzioni, società, volontariato, e gli stessi detenuti si sono trovati impreparati di fronte ad una legge da tanti pure voluta ma arrivata in maniera precipitosa.
• Il presidente della caritas di Torino, Dovis, ha anche lamentato che l’indulto non ha tenuto conto delle motivazioni per cui molti lo ritenevano opportuno, che lo stesso Giovanni Paolo II aveva espresso affermando che “non si tratta di applicare quasi automaticamente o in modo meramente decorativo provvedimenti di clemenza che restino soltanto formali, così che poi, ... tutto torni ad essere come prima. Si tratta, invece, di varare iniziative ... caratterizzate dalla “predisposizione di cammini di redenzione e di crescita personale e comunitaria improntati alla responsabilità.”
• Nonostante tutto questo, sono stati avviati diversi progetti proprio per far fronte ai bisogni delle persone più deboli che hanno usufruito dell’indulto, ed anche questa è stata un’occasione preziosa di collaborazione tra Enti Locali, volontariato, prefetture, carceri e uffici esecuzione penale esterna.
• L’indulto è stata inoltre un’occasione che ha dato risalto nuovo ad un tema poco dibattito e trascurato, quello dell’assistenza a chi ha finito di scontare la pena.

 La comunità ed i suoi atteggiamenti

• Lo stesso indulto ha evidenziato come nella comunità sociale siano prevalenti due atteggiamenti opposti.
• Da una parte c’è chi sottolinea le esigenze di sicurezza sociale e di una pena certa, fino ad arrivare a chi mantiene una volontà di isolamento, allontanamento, chiusura, e di abolizione o quasi del recupero dei detenuti e delle misure alternative. Ci si oppone così ad un centro di accoglienza nel quartiere, si chiede la linea dura appena evade un semilibero, si mette ai margini chiunque abbia sbagliato ed abbia bisogno.
• Dall’altra parte ci sono invece tanti che credono e si impegnano per il recupero. Agli estremi di questa posizione c'è chi ritiene importanti solo i bisogni ed i diritti dei detenuti, e secondari quelli degli altri (vittime, cittadini, ecc.), finendo così per appoggiare di fatto, in nome della solidarietà e carità, forme di assistenzialismo e indulgenzialismo, e quindi anche di cancellazione delle responsabilità.
• A volte questi atteggiamenti convivono nella stessa comunità (es. parrocchia) ed addirittura nella stessa persona, come quando vediamo diffuso un perbenismo che si mostra aperto,democratico, caritatevole, ed insieme però poi, nel concreto della propria vita, indifferente e chiuso.

 Esperienze concrete

• Le esperienze di rapporti concreti e positivi della comunità con i detenuti e con i liberati dal carcere sono, nonostante le difficoltà che abbiamo visto, diverse ed anche molto ricche, e tutte testimoniano che è possibile vivere brani di fraternità anche in contesti difficili, pieni a volte di dolore, di disagio, di tensioni.
• Diversi di noi, infatti, anche qui presenti, hanno realizzato esperienze in vari campi,
o di accoglienza dei detenuti e dei dimessi dal carcere,
o altri di accompagnamento a persone in misura alternativa,
o molti di sostegno alle famiglie,
o ci sono anche centri di ascolto e di accoglienza per detenuti ed ex detenuti;
o di forme diverse di sensibilizzazione della comunità, anche per l’adozione di detenuti;
o di accoglienza temporanea presso famiglie o presso case a ciò predisposte,
o di cooperative di reinserimento (Carlo Tedde a Cagliari, Giuseppe Pezzotti a Brescia; Cooperativa Tassano a Sestri Levante)
• Dopo il mio intervento spero che almeno alcune possano anche venire fuori nel dibattito.

Linee di azione – prospettive

• Possiamo adesso provare a vedere ciò che la comunità può fare per il carcere e per la pena, sia nei rapporti con i detenuti sia nell'attività esterna.

Indulto e carcere

• Tra le strade possibili, una è senz’altro quella rappresentata oggi dalla possibilità di cogliere l’occasione unica dell’indulto
• Visto che la popolazione detenuta è al momento ridotta, oggi ci sono le condizioni per un maggior rispetto della persona, per un "trattamento" individualizzato più efficace, per seguire meglio le persone nel loro percorso di orientamento e reinserimento.
• Appare perciò oggi più possibile di prima riempire la pausa carcere della vita di una persona, di contenuti positivi, di occasioni di riflessione, di sostegno, di impegno, di responsabilizzazione, di comunione.

Le misure alternative

• La scommessa principale è però
o recuperare la centralità delle relazioni, soprattutto con la famiglia,
o riuscire a rafforzare i legami con l’esterno e
o spingere per una maggiore applicazione delle misure alternative alla detenzione.
• Le misure alternative richiedono, però, per essere efficaci, servizi e interventi seri sul territorio. Infatti sono tanti i detenuti che non possono accedere ad una misura (o la stessa viene revocata) per mancanza di concrete opportunità, e le stesse problematiche che si trovano in carcere le ritroviamo all’esterno a volte anche aggravate dall’isolamento e dalla carenza di sostegni e di accoglienza.
• Occorre perciò che tutta la comunità sociale si senta responsabile e si attivi perchè le misure alternative siano piene di contenuti positivi, e quindi aiutino effettivamente sia a reinserirsi sia a responsabilizzarsi ai valori della legalità.
• La sola sottolineatura dei diritti, la sola offerta di aiuto ed assistenza, insieme alla carenza di interventi seri di recupero e di controllo, rischiano infatti di favorire forme assistenziali, di restituire alla società soggetti poco consapevoli dei propri doveri sociali e quindi non completamente realizzati come persone, di rafforzare l'allarme sociale e la richiesta di più carcere.
• Quando si parla di effettività della pena si pensa al carcere, ma il problema riguarda qualsiasi tipo di pena, e quindi anche le misure alternative devono essere, ed essere viste, come pene effettive e serie.
• Sia la linea della chiusura e e del controllo fine a se stesso, sia la linea buonista, della comprensione sempre e comunque, dell’aiuto fine a se stesso non sono in linea con la costituzione e tradiscono il principio della effettività della pena.
• Da una parte accentuano infatti l’emarginazione, e spesso il rifiuto nei confronti della società, e dall’altra accentuano la dipendenza, la deresponsabilizzazione, quasi la legittimazione del comportamento deviante.

La fraternità - Puntare ad un nuovo rapporto pena - comunità

• Di fronte agli opposti ed ambigui atteggiamenti frequenti della comunità, cosa può significare allora una pena animata dalla fraternità?
• Può essere utile partire dalla riflessione di Giovanni Paolo II nel suo Messaggio per il Giubileo nelle carceri del 2000: “Secondo il disegno di Dio, ciascuno deve assumersi il proprio ruolo nel collaborare all'edificazione di una società migliore. Ciò evidentemente comporta uno sforzo grande anche per quanto concerne la prevenzione del reato. Quando, nonostante tutto, questo viene commesso, la collaborazione … si traduce … nell'impegno di contribuire alla predisposizione di cammini di redenzione e di crescita personale e comunitaria improntati alla responsabilità”.
• Di fronte alla crisi del senso della pena oggi, sia nella teoria che nella pratica, la fraternità, e le esperienze di fraternità che anche tanti di noi hanno portato e stanno portando avanti, forse possono dire qualcosa di nuovo.
• Lo spazio per la fraternità mi pare infatti molto ampio, sia dal punto di vista della teoria, della possibilità cioè di sviluppare la logica della fraternità all’interno delle categorie giuridiche della pena, del reinserimento, della sicurezza, sia dal punto di vista della pratica, dove già molte sono le esperienze ispirate dalla cultura della fraternità, e molto più forti e significative possono ancora essere.
• Si potrebbe, solo per fare un esempio, provare a vedere la pena come strumento per ricomporre il legame di fraternità rotto con il reato.
• Ciò anche in linea con la dottrina sociale della Chiesa che mette al centro la persona umana proprio come essere in relazione e quindi portatore di diritti ma anche di precisi doveri e responsabilità nei confronti del prossimo e della comunità.
• Anche il Presidente Ciampi, il 27 gennaio 2005, ad un convegno su Tossicodipendenza e Carcere, sottolineò come, nei percorsi di riabilitazione dei tossicodipendenti che delinquono, occorra avere “ben presente la necessità di un giusto equilibrio tra le esigenze di cura e quelle, altrettanto essenziali, della sicurezza collettiva”.
• Solo una pena che sia concretamente progetto di sostegno e recupero, e anche contemporaneamente progetto di responsabilizzazione, può essere uno strumento per trattare veramente chi ha commesso un reato non come un oggetto (da assistere o da controllare) ma come una persona, un fratello, cui riconoscere i propri diritti ma anche da responsabilizzare al rispetto dei propri doveri e delle regole della collettività.
• La logica della fraternità può rendere più facile e possibile combinare, con intelligenza ed amore, aiuto e controllo, solidarietà e sicurezza sociale, perché porta a tenere conto delle esigenze di tutti i fratelli, del fratello reo così come del fratello vittima effettiva e possibile, ecc.
• La cultura della fraternità può rendere così più facile sviluppare percorsi di giustizia riparativa e di educazione alla legalità, perché vedere anche la vittima del reato come fratello porta a dare anche a lui una posizione centrale, ed a lavorare perché il condannato maturi la volontà di fare qualcosa di positivo per i fratelli danneggiati (interventi di riparazione del danno, lavori di pubblica utilità).
• Molti sono i soggetti in misura alternativa già positivamente impegnati, e molti di più potrebbero esserlo, in questo senso. Questa maggiore attenzione alle esigenze della vittima appare di grande significato, anche perché riparare il danno alla vittima, o prestare un servizio alla collettività, ha una funzione fortemente rieducativa molto spesso maggiore di tanti altri interventi ed obblighi.
• E la fraternità può anche essere ciò che anima e che fa “vincere” l’impegno per l’integrazione e la collaborazione tra tutti (amministrazione penitenziaria, servizi, enti locali, forze dell’ordine, operatori, volontari, ecc.).
• La fraternità può aiutare infatti anche gli operatori a riconoscersi reciprocamente fratelli impegnati sullo stesso fronte del servizio ad altri fratelli, e quindi ciascuno a vedere diversamente ed a valorizzare il lavoro degli altri, il volontario l’operato del poliziotto, il magistrato quello degli assistenti sociali, ecc., facendo così in modo che ciascuno senta, anziché l’isolamento, il sostegno degli altri e della collettività nel suo difficile compito.
• La visione della pena come strumento per ricucire il legame di fraternità ed il patto di cittadinanza rotti può facilitare tutti, e perciò anche noi, operatori e volontari, a dare il giusto valore alla pena stessa, e così a superare atteggiamenti di buonismo, di assistenzialismo, che spesso non aiutano a far maturare una seria volontà di rivedere la propria vita e le proprie scelte.

Problemi ed esigenze dell’assistenza post penitenziaria

• Ed un altro campo stimolato anch’esso dall’indulto, è l’impegno perché, come prevede la legge, i dimittendi siano segnalati, qualche mese prima di uscire dal carcere, ai servizi ed alle risorse della comunità, in modo da aiutare, da un lato, il detenuto a conoscersi meglio e a capire le sue capacità, e dall’altro, la società, l’ente o l’associazione, a muoversi meglio fuori, per per avviare percorsi di accompagnamento.
• Si tratta anche di fare il possibile per potenziare le strutture di accoglienza già attive, come i Centri d’ascolto, le mense, gli ostelli, per far sì che anche chi non ha reti familiari di riferimento possa comunque trovare dei punti di orientamento e di sostegno, almeno nella fase iniziale.
• Oggi è perciò il momento buono per provare a realizzare un raccordo nuovo tra carcere, uffici esecuzione penale esterna, volontariato, enti locali, società civile, che realizzi una continuità tra il lavoro in carcere – in misura alternativa – e poi dopo il carcere nella e con la comunità: gruppi, circoli, parrocchie, ecc.

La comunità come risorsa responsabile

• Infine, riteniamo debba essere valorizzato il richiamo del Papa e della Chiesa anche alle “responsabilità della comunità” che dovrebbe sempre più affrontare queste problematiche in quanto tale, e non affidarle a pochi volenterosi e sensibili.
• Al di là, anzi a partire dalle esperienze dei singoli e dei piccoli gruppi, occorre pertanto mettere al centro proprio la comunità sociale stessa come principale risorsa e valore, comunità sociale della città, del quartiere, della parrocchia, del gruppo, dell’associazione.
• Solo una comunità sociale solidale, responsabile e responsabilizzante, infatti, può realizzare una giustizia sociale vera, che è quella che mette insieme, come entrambe essenziali, solidarietà e legalità.
• A questo fine, ogni comunità che vive al suo interno la fraternità (gruppi, parrocchie, associazioni, ecc.), può portare la propria esperienza di fraternità quale contributo specifico, di grande valore per far sì che siano realmente l'amore ed il servizio concreti ad informare ogni strategia per ridurre la criminalità.

Cosa possiamo offrire noi?

• Relativamente allo stile del nostro intervento, ed agli atteggiamenti di fondo che lo animano, sono emersi, anche negli incontri passati, alcuni punti.
• Si tratta di vivere la spiritualità dell’unità e la cultura della fraternità anche nelle difficili relazioni della realtà penitenziaria
• Il nostro contributo specifico sta prima di tutto nello spirito con cui agiamo (arte di amare, che significa in concreto dignità della persona) sia nei colloqui con i detenuti ed ex e loro famiglie, sia nei rapporti con gli altri operatori onde costituire “corpo” ed operare come “corpo”.
• il nostro ruolo è quello di aiutare a far fruttificare il dolore che è di per sé il carcere
• l’importanza, in particolare per gli operatori che non possono, e di regola istituzionalmente non devono, parlare del Vangelo, di essere una testimonianza dell’amore, di vivere cioè facendo passare l’amore non dalle parole ma dalla vita.
• Su questa base, ed a partire dalle esperienze già in atto e dalle esigenze emerse, è possibile sviluppare alcune piste di azione, tra cui:
o iniziative di accompagnamento, per la formazione e l’inserimento lavorativo, ecc.
o centri di recupero e case di accoglienza,
o “centri di ascolto”, anche per i familiari dei detenuti, anche presso le parrocchie;
o sensibilizzare la comunità sociale ad un maggiore coinvolgimento (parrocchie, scuole, quartieri, gruppi e associazioni, sindacati, ecc.), proponendo forme diverse di aiuto: per esempio, seguire le famiglie, corrispondenza, “adozione di detenuti”, ecc.
o Essere “punto di unità” per le realtà del territorio impegnate nel settore (per es., tra i volontari appartenenti a diverse organizzazioni, tra volontari e parrocchie, comunità di accoglienza, ecc.)
o approfondire la collaborazione tra i volontari e gli operatori penitenziari, compresi i cappellani
o Operare “tra noi”, appartenenti alle diverse categorie di operatori, come “corpo”, per potere aiutare a “fare corpo” quanti lavorano nel penitenziario;
o Sviluppare perciò una rete fitta per lo scambio di esperienze, dubbi, problemi, confronto sulle difficoltà in questo campo,
o sviluppare un’etica specifica del lavoro nel campo della pena
o elaborare in unità proposte per rendere le leggi più rispondenti alle esigenze di recupero dei condannati (es. per sviluppare i percorsi di giustizia riparativa, ecc.).

dott. Salvatore Nasca
Intervento di Mons. Giorgio Caniato

(Ispettore Generale dei Cappellani delle Carceri)

Di cose da dire sul mondo delle carceri ne avrei tante, perché vi sono entrato nel 1955 (avevo 27 anni), e non ne sono ancora uscito. Ho fatto per 42 anni il cappellano a S.Vittore (13 anche al Beccarla con i minorenni), ed ora da 10 anni sono Ispettore generale dei cappellani. Per far capire il ruolo dell’Ispettore generale dei cappellani, egli è alla stessa stregua dell’Ordinario militare per i cappellani militari. L’Ispettore generale ha il compito di vigilare e di coordinare l’attività dei cappellani delle carceri. E’ un ruolo statale, istituito con legge. Lo Stato ha istituito i cappellani delle carceri non per favorire la Chiesa. Questa cosa va chiarita. Lo Stato è laico, e perché laico riconosce alla persona umana tutti i suoi diritti fondamentali, e tra questi, come attestato dalla Carta dell’ONU e dalla Costituzione italiana, c’è il diritto a professare la propria religione. Lo Stato garantisce questo diritto anche alla persona detenuta e crea gli strumenti perché ciò avvenga; tra questi strumenti c’è la presenza del ministro del culto all’interno delle carceri, che vuol dire l’assistenza religiosa. Dovrebbe essere anche per quelli che sono di un’altra religione (per esempio, i mussulmani), ma al momento loro non hanno un ministro del culto.
Se questa è la parte dello Stato, la Chiesa cosa deve fare? Siccome Gesù è venuto per salvare tutti gli uomini, occorre fare sì che anche quelli che sono detenuti in carcere siano salvati. Questo è il concetto. Questo è il motivo della presenza dei cappellani nelle carceri, e anche dei volontari cattolici, giacchè è il Battesimo che spinge al volontariato noi cristiani. La nostra presenza in carcere, dunque, non è assistenza, è evangelizzazione. Gesù ha detto che quando andiamo a trovare i carcerati, lo facciamo a Lui. La nostra evangelizzazione rientra in questo schema.
Riguardo alla collaborazione tra gli operatori, compresi i volontari, è bello vedere qui che siete tutti cristiani, e questo già crea la comunità, la comunità cristiana dentro al carcere, compresi i detenuti cristiani. Tutto ciò fa Chiesa. Infatti i cappellani sono lì mandati dal Vescovo, perciò è tutta la comunità cristiana che pensa alla evangelizzazione del carcere. Per questo occorre che ci sia la collaborazione della comunità cristiana esterna.
Perché andiamo nel carcere? Perché lì ci sono degli uomini, e noi andiamo da questi uomini così come Cristo è venuto per gli uomini. Perciò noi non chiediamo al detenuto: “Chi sei?”, “Sei cristiano?”. No, noi andiamo come uomini incontro all’uomo, affinché i detenuti possano venire a noi come uomini. E’ necessario, pertanto, che i cappellani, pur essendo operatori, non facciano parte della struttura; per esempio, non facciano parte dell’equipe del trattamento, poiché l’equipe deve fare una valutazione, e quindi se il cappellano vi fa parte, i detenuti non vanno più da lui per dirgli tutto di se stessi. Ma, il non far parte dell’equipe non vuol dire che il cappellano non deve collaborare con tutti. Si collabora con tutti perché si vuole il bene. Perciò, tutto ciò che il cappellano sa, le conoscenze che egli ha avuto, che possono aiutare il detenuto, egli le comunica al direttore, all’educatore, al medico, anche al magistrato, se ciò lo richiede il bene del detenuto. Certamente si va col permesso dello stesso detenuto.
Questo che vi ho descritto è un aspetto importante della presenza e dell’opera del cappellano. Poi, il cappellano porta in carcere il culto, la preghiera, i sacramenti, e anche questo aspetto è molto valutato e apprezzato, perché la religione diventa causa di rieducazione. Un detenuto che vive la religione certo che cambia, si trasforma, ma si trasforma in modo profondo.

Ma, il cappellano evangelizza non solo a livello personale. Egli, se porta Cristo, spinge la stessa struttura detentiva a mettersi in discussione, poiché la struttura detentiva è antiumana, è contro l’uomo perché è contro la libertà all’uomo. Ciò non significa “chiudiamo le galere”, ma pone il problema di cosa si deve chiedere alla struttura detentiva. Abbiamo visto attraverso le esperienze presentate qui oggi che il cambiamento dell’uomo detenuto è possibile; è possibile se egli trova persone – e possono essere il cappellano, l’assistente sociale, il volontario, ecc. – capaci di realizzare con lui un rapporto personale; e questo non lo può fare la struttura.
Naturalmente, connesso al problema dell’esecuzione della pena, c’è il problema della giustizia penale in sé. Io penso che la giustizia non consista nella punizione: “hai commesso un reato e ti infliggo un castigo”; un uomo non accetta ciò. Se invece gli si dice: “hai rubato? Allora restituisci quello che hai maltolto”, egli lo accetta. Oggi, grazie al Cielo, lo dicono anche altri: il card. Martini, studiosi come il prof. Eusebi della Cattolica di Milano. Si amministra giustizia facendo ricostruire quello che è stato distrutto. Non si tratta neanche della mediazione, poiché la mediazione in galera non è facile; ma si tratta di ricostruire, di riparare quello che l’uomo ha distrutto: questa sarebbe la vera mediazione della giustizia; quindi tutto l’aspetto negativo della giustizia sparirebbe; il che, ripeto, non vuol dire che le carceri debbano essere chiuse, ma che la punizione sarebbe l’obbligo della ricostruzione, del rifacimento delle cose. E’ questo anche il succo del messaggio che il Papa mandò per il Giubileo, con il quale non chiedeva indulto o amnistia, ma una risistemazione strutturale delle carceri, e poi dare anche un piccolo segno che dicesse la misericordia di Dio.
Posso dirvi anche del rapporto tra l’Ispettorato dei cappellani e la CEI. E’ un rapporto bello e intenso; i Vescovi non sono indifferenti ai nostri problemi. Al convegno di Verona della Chiesa italiana siamo stati presenti con due documenti, così come lo fummo nel convegno di Loreto dell’ 85. Cosa abbiamo chiesto alla CEI? Che esca con un documento che indichi quale è il rapporto che i cristiani debbono avere con le strutture del penale, che non sono solo le carceri, ma tutta l’amministrazione della giustizia. Per poterlo fare, occorre la partecipazione di tutti gli operatori cristiani: magistrati, avvocati, direttori delle carceri, agenti penitenziari. E’ un documento serio quello che abbiamo chiesto; un documento di pensiero come quello famoso sulla legalità.
Infine, ci sono problemi particolari da affrontare: droga, immigrazione, ecc. Bisogna risolvere questi problemi con criteri di civiltà. L’immigrazione è favorita perché serve all’economia, ma non è per l’uomo; altrimenti porteremmo il lavoro lì, sul posto, e non sfrutteremmo le loro ricchezze.


dott. Giovanni Caso
Mons. Caniato, intanto Le siamo molto grati per questo suo intervento molto illuminante. Lei ha accennato, fra l’altro, alla necessità della collaborazione tra i diversi operatori e quanti altri si occupano della realtà penitenziaria. Su questo punto intendiamo offrire adesso alcune esperienze.

Mons. Caniato
Intanto, prima di ascoltarle, vorrei dire qualcosa riguardo alla collaborazione. Oggi è la Caritas ad occuparsi del volontariato cattolico anche nelle carceri. Però ci sono anche le Associazioni, i Movimenti: ci siete voi del Movimento dei focolari, c’è la San Vincenzo, c’è la Compagnia delle Opere, c’è Sant’Egidio….. E’ necessario che ci presentiamo come corpo operante vivo; quindi unificarsi, perché l’unione fa la forza.
Dal punto di vista statale io sono Ispettore dei cappellani; ma dal punto di vista ecclesiale sono responsabile della “pastorale carceraria”, e quindi anche di ciò che il volontariato cattolico fa nelle carceri. Perciò occorre presentarsi come forza unita. Per la mia funzione sono dentro nella CEI, e so che i Vescovi sono disposti ad ascoltarci e a venirci incontro; tutto dipende da voi: sapervi organizzare, sapervi unificare…..


Mons. Giorgio Caniato
ESPERIENZE


dott. Giovanni Caso
Vogliamo continuare l’incontro leggendo il messaggio che Chiara ci ha inviato. Chiara riassicura che lei chiede lo Spirito Santo non solo per chi parla ma anche per chi ascolta. Mi colpisce in particolare che Chiara chieda lo Spirito Santo anche per chi ascolta. Se mi consentite un commento, mi sembra la conferma che ci vuole la reciprocità, un uguale atteggiamento sia di chi parla sia di chi ascolta.

Esperienza di Benedetto e Caterina Di Marzo - volontari delle carceri
Mons. Caniato ci ha detto prima che una condizione fondamentale perché i nostri incontri con i detenuti portino frutto è che dobbiamo anzitutto essere noi in grazia di Dio. Io e Caterina, mia moglie, cerchiamo soprattutto di essere in grazia di Dio quando entriamo in carcere; e, per essere in grazia di Dio, io devo volere bene a lei e lei deve volere bene a me, perché, se non accade questo, che andiamo a fare? Ad amare gli altri se io non riesco con lei? Perciò questa cosa è fondamentale.

Mons. Caniato
E’ verissimo. Spesso io dico ai ragazzi che vogliono impegnarsi nel sociale, aiutare gli altri, ecc.: “Senti, tu pretendi di fare la carità all’esterno, ma come vivi in casa? Rispetti tua madre?”. Perché la carità, se non parte dall’amore in famiglia, è falsa.

Benedetto e Caterina
Tutto è cominciato quando nel 1989 Antonio e Maria de Santis (pure loro volontari) hanno cominciato ad entrare nella realtà del carcere. Hanno constatato che in carcere mancava una buona stampa; allora sono andati a sensibilizzare le parrocchie. Io li ho imitati; mi sono presentato al carcere di Velletri e ho chiesto al cappellano se aveva bisogno della buona stampa.; mi ha risposto: “Ma guardi, veramente a noi occorrono dei volontari perché i detenuti sono soli; c’è un cappellano per 300-350 detenuti”. Ho cominciato; ma, le richieste di colloqui erano tante; allora ho chiesto: “Può venire a darmi una mano la mia sposa?”. Così ha ottenuto anche lei l’autorizzazione.
In seguito, constatando tutte le loro esigenze, abbiamo cominciato a girare per le parrocchie per chiedere aiuti concreti ma anche presenze. E così si sono aggiunti altri: suor Fabiola, suor Maria Giovanna, suor Dina ed altri. Ed anche i parroci, quando li andavamo a trovare, si sono interessati; per esempio, ci dicevano: “Ho l’impressione che lì dentro c’è anche una mia pecorella…”.
C’è stato così man mano questo coinvolgimento di tutta la comunità cristiana. Ci siamo presentati al Vescovo, per chiedergli se era contento del lavoro che facevamo; e quando è arrivato il nuovo Vescovo gli abbiamo chiesto se potevamo continuare anche quest’anno; ed egli ci ha risposto: “Non vi dico per quest’anno, vi auguro che possiate farlo per altri trenta anni”.

Il numero di volontari e di persone coinvolte è cresciuto, ed anche sacerdoti. Una volta io e Caterina, mentre ci recavamo al carcere di Velletri, siamo passati davanti ad una chiesina, molto piccola; ma ci siamo detti: “Perché non andiamo anche da questo parroco? Non conta quello che la Provvidenza può mandarci, quello che conta è che la comunità possa farsi carico”. Così è successo che quel parroco ha ottenuto l’autorizzazione come volontario, e non vi dico da questo fatto quante celebrazioni ci sono state in carcere, e battesimi, cresime, matrimoni, e conversioni di mussulmani, perché c’era un seminarista detenuto che gli ha fatto da catechista e vedendo il suo comportamento hanno deciso di diventare cristiani.
Inoltre, riguardo al reinserimento, io e Caterina qualche volta, per far respirare ai detenuti un po’ d’aria di libertà, li abbiamo accolti in casa quando avevano un permesso-premio di due-tre giorni. Non potevano uscire di casa, ma in questo modo è avvenuta questa apertura con la fiducia degli organi responsabili.
Sempre riguardo al coinvolgimento della comunità, c’è poi la corrispondenza dall’esterno con persone detenute. Diverse di loro sono state coinvolte; e si vengono a conoscere e a seguire tante storie, tante situazioni……..

Posso testimoniare che proprio grazie alla forza che ci viene dall’unità - (quel “mettere Gesù in mezzo a noi” del carisma dell’unità) – tra me e mia moglie Caterina, noi possiamo affrontare situazioni veramente difficili con risultati altrimenti inimmaginabili, come quella di un ergastolano di cui sono stato padrino alla Cresima, e che mi scrive chiamandomi “Caro padrino”, o di un altro che, dopo avere ricevuto il Sacramento, mi manda i suoi saluti scrivendo la preghiera del Padre Nostro, o di un altro ancora che ci dice: “Non ditemi chi è Dio, se è forte come una roccia o leggero come una piuma… io so soltanto che è qui in mezzo a noi”. E, allora, io e Caterina respiriamo un’aria di redenzione, di pace. E loro ci dicono: “Siamo nella gioia, ci sembra di sentire che Gesù senz’altro è qui”. E, quindi, conversioni…

Ora a Velletri si è formata una Associazione chiamata “Volare” (Volontari assistenza reclusi), di cui fanno parte molte persone (responsabili della Caritas diocesana, volontari, sacerdoti, ecc.) ed è stata messa su una piccola casa di accoglienza. Il Vescovo di Albano ci ha detto: “Nella mia diocesi non c’è un carcere, però abbiamo famigliari di detenuti”, e ci ha offerto un contributo.

Ma, devo dirvi una cosa importante: noi ci rivolgiamo alla nostra Mamma celeste e non potete immaginare quanti problemi Lei ci risolve. Una volta, per esempio, ci ha telefonato una signora, che è medico e che ci aveva sentito parlare in chiesa, e ci ha detto: Ho bisogno di voi. Mia moglie Caterina in quel momento stava molto male, ma lei ha insistito ed è venuta. Ci ha spiegato che l’avevano ingiustamente accusata perché in un caso come medico legale si era rifiutata di fare una cosa che era contro la legge; le abbiamo proposto un avvocato che l’ha difeso e il suo caso si è risolto, mentre l’avvocato di prima l’aveva abbandonata. Quando è venuta a casa nostra si è accorta che Caterina stava molto male e le ha prescritto un farmaco ed è andata lei stessa ad acquistarlo; non avevamo in quel momento soldi, e lei ci ha offerto pure 500 euro per i “nostri amici” in carcere.
Concludo dicendo che, quando dall’Autorità competente ci viene richiesto di fare una relazione sul nostro lavoro di Volontari del carcere e di indicare se abbiamo parenti detenuti, noi rispondiamo di no ma mi sembra quasi di dire una bugia perché in effetti abbiamo lì dentro tanti fratelli.

dott. Caso
Grazie, Benedetto e Caterina. Desidero chiedervi, se c’è ancora un po’ di tempo, di dirci qualcosa del vostro rapporto anche con le altre persone che non sono i detenuti.

Caterina
Si; ricordo molto anni fa un agente penitenziario, vedendo il mio impegno, mi disse: “Signora, lei si sta stancando; ma, guardi, non ne vale la pena, non cambieranno mai, lasci perdere”. Io risposi: “Ma, veramente, sono contenta di farlo”; e lui: “Ma, chi glielo fa fare; forse avete delle intenzioni particolari…..”. Ed io: “No. Io e mio marito veniamo per voler bene a tutti, anche a lei”. Ecco, da quel giorno quell’agente, ogni volta che mi vede arrivare, corre a salutarmi. E sono passati dieci anni.
Mons. Caniato
Devo aggiungere che anche noi cappellani, siamo tali non solo per i detenuti ma per tutti quanti vi operano; e quindi anche per gli agenti. A volte gli agenti vedendo il prodigarsi di voi volontari per i detenuti dicono: “Perché per loro si e per noi no?”. Sono quasi un po’ gelosi, anche se è sbagliato.

Benedetto
Si, senz’altro; nel nostro peregrinare andiamo anche dagli agenti, per esempio quando si ammalano. Una volta il cappellano mi disse: “Benedetto, quell’agente sta male, ha chiesto di vederla”. Sono andato, e lui: “Benedetto, so che voi, a chi ve la chiede, date un’immaginetta o qualcosa di simile…”. Allora ho visto nel mio portafoglio, ho trovato una medaglietta di padre Kolbe e gliel’ho data. Perciò, è vero, per noi non ci sono solo i detenuti; ci sono anche gli agenti, che ci raccontano le loro situazioni, gli educatori e gli altri.



Esperienza di Alfonso Di Nicola – volontario delle carceri


Pensando a ciò che Chiara ci ha detto, riguardo allo Spirito Santo, mi sembra che Spirito Santo e gioia sono vicini.

Desidero raccontarvi un’esperienza di qualche giorno fa. Sono stato con Micaela della Comunità Nuovi Orizzonti in una parrocchia per sensibilizzare i parrocchiani. Durante la Messa dei bambini (la chiesa era piena di bambini) il parroco ci ha chiesto: “Cosa dite se i bambini vi fanno un’intervista, se vi chiedono qualcosa della vostra esperienza con i carcerati?”, e rivolgendosi a me: “Mettiti qui al centro della chiesa e i bambini vi fanno delle domande”.
Un bambino chiede: “Perché vai in carcere?”. Ed io: “Vado in carcere perché voglio amare Gesù. Chi dà la gioia è Gesù. Se noi amiamo Gesù, siamo contenti, siamo felici. Gesù ha detto: Ero in carcere e siete venuti a visitarmi, a trovarmi, a volermi bene. Allora io vado a trovare Gesù che è in questi fratelli che sono lì in carcere, che soffrono un po’. Il giudizio su di loro lo lasciamo al Signore; noi non giudichiamo, chi giudica è Dio. Noi vogliamo bene, perché Gesù ci ha detto di amare, di amare tutti. I bambini, tutti contenti di questa risposta, hanno battuto le mani.
Un altro ha chiesto: “Ma, tu non hai paura?”. Ed io: “Paura? mah, noi andiamo a voler bene a Gesù e di Gesù non si ha paura, si vuole bene, e poi anche Lui ci vuole bene attraverso queste persone”.

Adesso voglio dirvi qualcosa della mia vita, altrimenti non si capisce questo che dico. Durante la giornata, poiché sento che la nostra vita è amare Gesù nell’attimo presente, mi domando: “Alfonso, adesso cosa puoi fare per amare Gesù? Mi succede che al mattino, poiché abito con amici, vado in cucina a farmi il caffè. Dopo, ho cura di pulire la macchinetta, in modo da lasciarla pronta per l’uso da parte di chi viene dopo di me. Lo faccio per Gesù. Così se trovo sporco, pulisco, lo faccio perché poi Gesù nell’altro passa e trova pulito. Oppure, se vado in macchina e mi accorgo che qualcuno dietro di me vuole passare, accosto perché è Gesù che passa. Sono tante piccole cose, però sento che la cosa più importante è fare così. Allora, quando vado in carcere sono preparato. La fonte della gioia è Gesù; se io cerco la gioia direttamente non la trovo. Se invece punto su Gesù arriva la gioia, arriva la pienezza, arriva tutto.
Vado in carcere; cosa vado a fare? Quando parlo nelle chiese, mi danno qualche soldino, qualche cosa; allora compro delle caramelle, dei francobolli, per loro. Io vado a Rebibbia, è come un grande lago: butti un sassolino e vedi che le onde si allargano. Così, faccio un atto d’amore all’uno o all’altro, ma sono tanti Gesù, ciascuno Gesù. E vedo che sono contenti, ma anch’io me ne esco contento, perché ho cercato di volere bene a questi fratelli, a questi prossimi…
Adesso vi racconto un’esperienza fatta da uno di loro. Mi ha detto: “Alfonso, ti vedo contento, ti vedo felice; ma è possibile la serenità? è possibile la pace?”. Gli ho risposto: “Si, è possibile, ma ci vuole una condizione: che tu cominci ad amare, cominci a fare qualcosa per gli altri”. E lui: “Ma cosa posso fare? Sono sempre chiuso qui dentro”. Ed io: “Vedi tu, fatti venire l’ispirazione, un’idea”. Una settimana dopo lui mi ha detto: “Sai cosa ho fatto? Prima nessuno mi voleva vedere - (infatti aveva la barba lunga, i capelli lunghi, era trasandato, si vede che era sfiduciato) -; allora mi sono messo vicino alla porta e quando passavano i detenuti ho cominciato a salutarli. Qualcuno si è fermato e ha cominciato a parlare con me; poi, man mano gli altri. Adesso tutti parlano con me. Anche i miei parenti, prima non mi scrivevano; ora ricevo lettere da loro…”.

Un altro detenuto, Giorgio, aveva litigato con un agente. Ha capito che doveva volergli bene ed ha cominciato a salutarlo, ma l’altro non gli ha risposto e, quando doveva chiudere la porta, la sbatteva forte. Ma, dopo un po’ di tempo che il detenuto continuava a salutarlo, l’agente ha cominciato a chiudere la porta sempre più piano. Era il segno che l’amore era passato.
Ecco, per me il volontariato vuol dire questo: prima di tutto amare Gesù, amare Gesù in queste persone e niente altro.


Esperienza di Michaela – volontaria delle carceri

Sono Michaela e vengo dalla Romania. Ci tengo a dirlo perché ieri si è parlato tanto degli stranieri in carcere e sono contenta di avere visto anche tanti aspetti positivi, perché di solito mi scontro con l’altra parte, quella che ti dice. “Ah, questi rumeni, ‘sti stranieri…”. Insomma mi tocca sentire un po’ le lamentele, ma non è quello che mi scoraggia. Da due anni faccio parte della Comunità “Nuovi Orizzonti”, dove ho potuto vedere con i miei occhi il cambiamento vero delle persone. Prima di tutto l’ho visto su me stessa e poi su tante persone che noi accogliamo in comunità.

All’inizio col carcere avevo un rapporto di corrispondenza epistolare; in più accoglievamo delle ragazze che venivano nei nostri Centri. Proponevamo loro lo stesso stile di vita che noi viviamo, quello del Vangelo. In seguito ho fatto il corso per “volontari”; ci sono andata senza sapere di cosa si trattasse, ma ho visto in questa cosa “una volontà di Dio”. Infatti, oggi mi trovo ad essere l’unica volontaria di lingua rumena nel carcere di Rebibbia, e devo dire che non è una cosa impegnativissima; si tratta semplicemente di ascoltare le persone e parlare con loro nella stessa lingua. Vedo che per loro (i detenuti rumeni) questa cosa è davvero importante, gli ridà fiducia e vedo tanti cambiamenti in positivo da questo piccolo gesto di ascoltarli.
A volte mi trovo a fare anche da tramite con le loro famiglie, e constato che anche questa cosa apre dei canali impensati per fare del bene. C’è stato un ragazzo rumeno uscito con l’indulto, ma dopo tre giorni l’hanno rimesso in carcere perché l’hanno trovato alla stazione Termini senza documenti e con dei soldi in tasca; hanno dedotto che avesse rubato e l’hanno rinchiuso. Si è rifatto otto mesi di carcere; nel frattempo l’abbiamo conosciuto io ed Alfonso (perché spesso facciamo questo lavoro insieme e ciò ci dà attraverso l’unità più forza, più luce per vedere le situazioni). Parlando insieme con questo ragazzo, ci ha detto che da otto anni non aveva alcun rapporto con la sua famiglia. Sarebbe dovuto uscire dal carcere nel febbraio scorso ed era preoccupato perché non sapeva dove andare, e diceva:”Non ho nessuno; se sto per strada mi rinchiudono di nuovo…”. Allora ci ha chiesto aiuto. Io dico: “Vediamo cosa si può fare”, ma sinceramente non sapevo dove mettere le mani; non potevamo accoglierlo nella nostra comunità, ma sentivo che bisognava fare qualcosa di concreto. Intanto, ho detto: “Preghiamo!”; così ho pregato io e ho fatto pregare la comunità, le ragazze che accogliamo. Dopo due settimane l’abbiamo rivisto a Rebibbia, ed egli, contentissimo, ci ha detto che aveva ricevuto una lettera da una zia che vive in Italia, che gli dava il proprio indirizzo dicendogli che se avesse avuto qualsiasi bisogno era disposta ad aiutarlo. Mi sono meravigliata che la preghiera fosse stata esaudita così velocemente. Mi sono fatto dare dal ragazzo il numero di telefono della zia e l’ho chiamata, anche per verificare che fosse tutto vero, ed in realtà era vero.
Ho raccontato questa esperienza perché in questo nostro lavoro di volontariato bisogna anche credere alla forza della preghiera, bisogna affidare queste persone a Dio, e a Dio non manca la fantasia per poter venire loro incontro. E’ importante sapere che si può fare da tramite, che si può.

Potrei raccontare altri simili episodi e sempre constato che quella piccola cosa che si può fare è un seme di speranza, che per le persone è davvero tanto. E, come diceva prima Alfonso, non è solo per loro che si fa ma anche per noi, perché è rafforzare la persuasione che ciò che si fa è “volontà di Dio”, e ci spinge ad andare avanti con più forza per essere una voce, quella piccola voce di cui le persone hanno veramente bisogno.

Voglio aggiungere che ho apprezzato ieri gli interventi sugli stranieri, quando si è sottolineato che tutti sbagliano, che siano italiani o stranieri, e se sono dentro è perchè qualcosa hanno commesso, sia gli uni che gli altri. Però, devo dire che ho visto a volte un trattamento diverso per gli uni e per gli altri, un po’ perché gli stranieri non sono capiti, un po’ perché hanno una mentalità diversa, a volte essi stessi non si fanno capire, non parlano, e si trovano davvero a disagio. Perciò il mio andare lì lo vedo anche per essere loro voce, se possibile.

Alfonso Di Nicola
Desidero dire un’altra cosa che sento molto importante. Cerchiamo di fare questo nostro lavoro possibilmente in unità con gli operatori penitenziari. Per esempio, quando vado nel Reparto di cui è Direttrice la dottoressa Del Villano, la metto al corrente di ciò che faccio, e lei ogni tanto mi dà un suggerimento, mi affida una persona, mi dice un caso. Così pure mi rapporto con qualche psicologo in modo da non agire da solo, perché da solo potrei sbagliare. E, quando c’è qualche caso un po’ particolare, il vederlo insieme con gli altri, il confrontarsi tra noi, il fare, come noi diciamo, le cose in unità, ci aiuta a non sbagliare. Bisogna stare attenti a non sbagliare, per dare l’amore vero.



La nostra storia

(esperienza della Comunità “Nuovi Orizzonti”)

L’Avventura di “Nuovi Orizzonti” è iniziata nel ’91 quando Chiara Amirante ha deciso di recarsi di notte alla Stazione Termini (Roma) per incontrare tanti giovani che hanno fatto della strada la loro "casa".
“Ho iniziato ad andare alla stazione Termini di notte - afferma Chiara - spinta da un semplice desiderio: poter condividere quella pienezza di gioia che il mio cuore aveva trovato grazie all’incontro con Cristo Risorto, proprio con quei fratelli che vedevo abbandonati e disperati. Quanti fratelli disperati con le lacrime agli occhi mi hanno abbracciato, chiedendomi: “Ti prego Chiara portami via da questo inferno!…”, e che dolore nel non riuscire a trovare un posto dove portarli!
E’ venuta cosi l’idea di una comunità di accoglienza dove proporre come regola di vita il Vangelo, con la certezza che se Colui che ci ha creato si è fatto uomo per dirci qualcosa, nell’accogliere e vivere le sue Parole troviamo “la” risposta ai bisogni più profondi del nostro cuore. E’ Gesù la Via, la Verità, la Vita e Lui ci dona il segreto per la pienezza della gioia e della pace !!”

Nel Marzo del ’94 Chiara, seguita da Loredana e Tonino, ha aperto a Trigoria (Roma) la prima comunità di accoglienza Nuovi Orizzonti, dove centinaia di giovani, provenienti da esperienze estreme hanno iniziato a ricostruire se stessi alla luce dell’Amore di Cristo. La risposta di questi ragazzi alla proposta di provare a vivere il Vangelo alla lettera è stata davvero sorprendente ed entusiasmante.

Da quella prima casetta (con materassi sparsi per terra dappertutto per accogliere il numero sempre crescente di giovani che bussavano alla porta della Comunità), si sono moltiplicati i Centri di Accoglienza, le equipe di strada, i centri d’ascolto, le missioni nei Paesi in Via di Sviluppo, i Centri per il Reinserimento lavorativo, le Cooperative sociali, i telefoni in aiuto, le Case di formazione per i consacrati e per i sacerdoti, i gruppi di preghiera, gli spettacoli e i Musical, i corsi di formazione e di conoscenza di sé, le “missioni di strada”, i Centri di spiritualità, le iniziative sociali di informazione, prevenzione, sensibilizzazione.

Prevenzione, sensibilizzazione, informazione

Sono oltre 1.000.000 nel 2006 le persone incontrate a meetings, convegni, tavole rotonde, nelle scuole, nelle veglie di preghiera, ad incontri diocesani, nelle piazze, nelle strade e persino nelle spiagge… in tutta Italia. Sono andate in onda 451 trasmissioni televisive (di cui 62 alla RAI) e 958 radiofoniche. Sono state distribuite oltre 220.000 copie del bollettino informativo “Orizzonti News” e continuano a crescere le nuove pubblicazioni e la diffusione dei libri di Chiara e dell’Associazione.
I “Giullari dell’Amore” hanno realizzato un primo musical “Stazione Termini”, un secondo “Nuovi Orizzonti” ed il relativo compact disc. Sono state organizzate diverse attività: telefono in aiuto, servizio di segretariato sociale, colloqui di sostegno, gruppi di auto aiuto, incontri di prevenzione, centri diurni, animazione di strada, attività artistiche e ricreative, trasmissioni radiofoniche (il TG delle buone notizie “Happy News”), laboratori teatrali, corsi di formazione al lavoro di strada… Inoltre sono stati realizzati centri di ascolto, con gruppi di sostegno e sportelli operativi in numerose scuole. Sono oltre 150 le scuole contattate (solo nel 2005/6) per attività di sensibilizzazione e prevenzione.
Il 13 maggio del ‘97 é stata aperta la Comunità di accoglienza di Piglio in un bellissimo convento francescano. La Comunità accoglie una sessantina di giovani con problemi di tossicodipendenza, alcolismo, prostituzione, senza fissa dimora, AIDS, carcere… ed è diventata un po’ il "quartiere generale" dell’Associazione Nuovi Orizzonti. Attualmente ha anche la funzione di Centro di formazione per i giovani che vogliono intraprendere un cammino di discernimento vocazionale e di formazione alla vita consacrata.
I Centri di accoglienza si sono moltiplicati in Italia e all’estero. La caratteristica della Comunità di accoglienza Nuovi Orizzonti è che vuole essere una grande famiglia aperta a tutti coloro che vogliono fare un’esperienza di vita rinnovata dall’Amore. Ci sono, infatti, molti giovani in comunità che, pur venendo da una vita “normale”, hanno lasciato il loro lavoro e la loro casa per poter vivere in comunità un’esperienza radicale di vita evangelica. Tutti, operatori, responsabili, ragazzi accolti dalla strada, giovani in discernimento vocazionale, si impegnano a crescere nell’‘ARTE di AMARE’, sostenuti da un programma formativo di conoscenza di sè e di guarigione interiore, nella consapevolezza che ciascuno è un dono per l’altro.
A tutt’oggi i centri di accoglienza e formazione di Nuovi Orizzonti in Italia e all’estero sono 54, in aggiunta ai 40 centri di ascolto e alle 41 case di consacrati.

Il progetto Nuovi Orizzonti

Il Programma terapeutico riabilitativo che si svolge nei diversi Centri di Accoglienza Nuovi Orizzonti si suddivide in cinque fasi: 1) Orientamento, 2) Accoglienza residenziale, 3) Conoscenza di sé, 4) Responsabilità, 5) Reinserimento.
Nella prima fase del programma, si lavora principalmente sull’individuazione e sul rafforzamento della motivazione del ragazzo a liberarsi dalle dinamiche di ‘strada’ e di dipendenza, per intraprendere un percorso impegnativo verso un nuovo stile di vita.
Questa prima fase si concretizza in una serie di gruppi terapeutici e di colloqui a carattere conoscitivo per definire le principali problematiche e individuare le risposte più adeguate. I ragazzi con problemi di tossicodipendenza vengono accompagnati e sostenuti nell’affrontare le numerose difficoltà che presenta la crisi di astinenza.
Nella seconda fase , si chiede al ragazzo accolto un distacco dai vecchi comportamenti e dagli atteggiamenti di strada e lo si accompagna in un percorso di acquisizione delle responsabilità personali e di coscientizzazione dei propri comportamenti devianti. Si cerca inoltre di educare alla fedeltà agli impegni, alla responsabilità, alla creatività, valorizzando le potenzialità e le doti rimaste inespresse. Si offrono inoltre numerosi spunti e strumenti che consentano un buon lavoro comportamentale ed emotivo, per poter maturare l’autodisciplina, l’autenticità, la libertà interiore, la disponibilità al dialogo, un crescente rispetto di sé e degli altri, una corretta scala di valori.
Se la seconda fase è un periodo particolarmente im-portante per l’acquisizione di un’iniziale consapevolezza dei propri comportamenti ed atteggiamenti non sani, la terza fase di “conoscenza di sé” è un momento decisivo per l’acquisizione degli strumenti necessari al cambiamento di tali comportamenti ed atteggiamenti. Si cerca di individuare con chiarezza i molti aspetti del disagio derivante da trappole e dinamiche che si sono radicate negli anni e si focalizza l’attenzione sugli impegni necessari per maturare ed interiorizzare alcuni atteggiamenti e abitudini positivi. Si dà molto spazio al lavoro di gruppo ed alla formazione, per poter sostenere il ragazzo in un cammino di crescita intesa come:
- rinuncia agli atteggiamenti distruttivi, in funzione di una visione positiva e costruttiva della realtà;
- acquisizione di una sana autostima e riscoperta delle proprie potenzialità positive;
- crescente consapevolezza delle dinamiche relative alla sfera delle emozioni dei sentimenti, delle sensazioni, dei processi mentali;
- riconciliazione con se stessi (con il proprio passato, con i propri limiti, tra sé ideale e sé reale);
- capacità di essere se stessi, liberi dai condizionamenti e dalla paura dei giudizi;
- acquisizione della capacità di essere propositivi;
- acquisizione delle proprie responsabilità negli impegni di ogni giorno e nelle dinamiche relazionali;
- promozione di uno stato di maturità e di autonomia;
- capacità di scelta e di giudizio;
- impegno e coerenza nel “qui ed ora”;
- capacità di autotrascendersi per andare incontro agli altri;
- dialogo e confronto nella verità;
- acquisizione di una crescente consapevolezza della propria dimensione interiore spirituale.

Nella quarta fase del programma, si lavora in particolare sulla responsabilità. Il ragazzo accolto assume ruoli di responsabilità nei settori di lavoro, nel coordinamento e nell’organizzazione delle attività della giornata all’interno della comunità. L’impegno nel donarsi, nell’insegnare ai ragazzi nuovi quanto si è appreso durante il proprio cammino comunitario e nel far sì che tutti rispettino le regole, è particolarmente importante nel processo di maturazione e nell’interiorizzazione dei nuovi atteggiamenti acquisiti. I ragazzi più “anziani”, nell’assumersi la responsabilità dei più “giovani” e nell’accompagnarli come fratelli maggiori e come ‘angeli custodi’, crescono in affidabilità e serietà. Assumendosi ruoli di crescente responsabilità, il ragazzo si impegna seriamente in un percorso di autonomia, di acquisizione di capacità decisionale, di crescita nella capacità di instaurare relazioni sane con gli altri, improntate non più sull’omertà e sul compromesso, ma sull’autenticità, sull’onestà, sulla gestione dell’emotività e dell’impulsività, sulla coerenza. In questa fase il ragazzo inizia anche ad impegnarsi, qualora ne senta il desiderio, nella prevenzione (incontri con i giovani delle scuole e di associazioni giovanili) e nel “lavoro di strada”.
Nella quinta fase del programma, si procede all’accompagnamento del ragazzo nel cammino di reinserimento sociale e lavorativo. In un primo momento, gli si affidano ruoli di maggior responsabilità in lavori esterni alla comunità, inserendolo gradualmente nella cooperativa sociale, al fine di verificarne il grado di maturità raggiunto. Lo si orienta poi nella ricostruzione di un proprio tessuto sociale e nella ricerca di una casa e di un lavoro che possano consentirgli il pieno raggiungimento della propria autonomia.
Si accompagna il ragazzo nell’acquisizione di una sana progettualità e lo si sostiene con gruppi di verifica sugli impegni lavorativi, sulla gestione del tempo libero, sul reinserimento sociale, sull’affettività.

Gli strumenti di lavoro

Gli strumenti di lavoro del programma terapeutico-riabilitativo Nuovi Orizzonti sono:
1) colloqui di orientamento ed accompagnamento, 2) colloqui di sostegno e di terapia,
3) lavoro comportamentale, 4) confronto, 5) gruppi di conoscenza di sé, 6) gruppi di formazione, 7) gruppi di condivisione, 8) gruppi di addestramento all’emotività, 9) ergoterapia, 10) creatività, 11) sport, 12) tecniche di rilassamento, 13) gruppi di spiritualità, 14) momenti di meditazione e di preghiera personale e comunitaria.

Centri

Prima accoglienza ed evangelizzazione

I Centri di “evangelizzazione di strada” si occupano del “lavoro di strada”, della primissima accoglienza e di numerose altre attività quali: telefono in aiuto, servizio di segretariato sociale, colloqui di sostegno ed orientamento, incontri di prevenzione e sensibilizzazione nelle scuole, corsi di formazione all’evangelizzazione e al lavoro di strada, attività artistico-ricreative, gruppi di preghiera, incontri di conoscenza di sé e di spiritualità, missioni di strada. I ragazzi incontrati in strada, che vogliono entrare in comunità, vengono accolti residenzialmente nel Centro Arcobaleno, per un periodo di circa un mese, necessario per il rafforzamento di una sufficiente motivazione al cambiamento di vita e, in caso di tossicodipendenza, per la disintossicazione; vengono poi indirizzati alle Comunità di accoglienza residenziale.

Lavoro

Coperativa "Ali blu"

Continuamente nascono nuove iniziative frutto dell’ingegno e della collaborazione di ogni membro della famiglia Nuovi Orizzonti, come ad esempio la Cooperativa sociale “Ali blu”. La cooperativa é nata per dare una risposta concreta al problema sociale e lavorativo del reinserimento dei ragazzi che hanno concluso il programma terapeutico. “Ali Blu” fornisce numerosi servizi, quali: giardinaggio, articoli vivaistici, pulizia e ristrutturazione immobili, lavori in cartongesso, creazione e promozione di articoli in ceramica, cotto, legno, cuoio; creazione e divulgazione di materiale informativo e preventivo.

Settori

Nel programma terapeutico riabilitativo “Nuovi Orizzonti” l’ergoterapia svolge un ruolo di primaria importanza. Il lavoro viene infatti considerato nella sua valenza pedagogica, educativa e formativa. La comunità è innanzitutto una “palestra di vita” e, proprio grazie al lavoro, si cerca di sviluppare i talenti, le capacità, il potenziale creativo, l’autodisciplina, la responsabilità, la maturità. Sono numerosi i settori di lavoro in cui i ragazzi della comunità si impegnano a rotazione: laboratorio di cotto, laboratorio di icone, ristrutturazione, orto, cucina, lavanderia, musical, segreteria, pulizie, restauro, falegnameria, bomboniere, bigiotteria, ricamo, artigianato, ecc…

Carcere

• Centro di ascolto a Roma per gli ex-detenuti e per i famigliari dei detenuti e loro famigliari
• La corrispondenza epistolare con circa 100 detenuti di 25 carceri italiane.
• Volontari di Nuovi Orizzonti inseriti nel volontariato penitenziario come la V.I.C. di Rebibbia
• Innumerevoli colloqui di sostegno e di verifica per l’eventuale inserimento nel programma pedagogico-riabilitativo Nuovi Orizzonti.
• Molti detenuti che, attraverso le misure alternative al carcere, sono entrati nella comunità Nuovi Orizzonti al fine di percorrere il programma pedagogico-reabilitativo che ha permesso loro di riconciliarsi con il passato, con se stessi e con i propri cari e di mettere basi per una vita dignitosa, dopo aver concluso lo stesso si sono inseriti con successo nel tessuto sociale gradualmente anche grazie alla nostra cooperativa sociale “Ali blu”.
• molti rimangono in contatto con la comunità venendo ai momenti di festa, di fraternità.
• Tanti ex-detenuti e non solo, pur avendo finito il programma, decidono di mettersi al servizio della comunità attingendo alla loro esperienza passata per aiutare tante persone, attraverso la propria testimonianza e l’esempio, a scegliere la vita al posto della morte che loro hanno sperimentato nella loro anima.

Miljenko Misak-Mitch
responsabile assistenza detenuti detenuti
della Associazione “Nuovi Orizzonti”



Esperienza di Fulvia di Bergamo – volontaria delle carceri


Sono Fulvia, sono di Bergamo e sono una volontaria del Movimento dei Focolari. Io non sapevo niente del carcere e dei problemi dei carcerati. Però un giorno è stato chiesto a me e mio marito – trattandosi del nostro mestiere - di restaurare una statuetta di Gesù Bambino per il carcere, che era tutto rotto. Così abbiamo restaurato questo Gesù Bambino. Successivamente ci hanno chiesto di restaurare anche un presepio per il medesimo carcere, affinché dall’alto i detenuti potessero vederlo; e l’abbiamo fatto. Allora, la suora che opera nel carcere e che ci aveva chiesto questo, ci ha detto “Visto che tu sai fare tante cose, Fulvia, poiché sono uscite tre ragazze dal carcere e non sappiamo dove collocarle, potresti aiutarci?”.
In quel periodo era arrivata molta stoffa da una ditta; allora ho detto a queste ragazze: “Volete farvi un golfino? Fate così, così”; ed ho insegnato loro come dovevano tagliarselo. Così, una lo tagliava, l’altra lo imbastiva, ed hanno incominciato a fare questo lavoro. Dopo si è aggiunta una ragazza in affido, e voleva imparare tante cose. Io, ogni volta che qualcuno arriva, cerco di vedere in lui veramente Gesù, perché ho imparato la famosa “regola d’oro”: “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”. Siccome a me piace proprio che la gente mi ami, allora amavo tutti quelli che incontravo. Perciò ho cominciato a vedere in questa ragazza quali erano i suoi doni per metterli in luce. A lei piaceva dipingere, allora ho insegnato a lei questo lavoro perché io lo facevo da ragazza.
Poi, avanti, avanti, sono cominciate ad arrivare altre ragazze, fino a quelle che sono poste agli arresti domiciliari. Io non mi sono mai interessata dell’aspetto giudiziario; andavo per loro, solo per insegnare a fare queste cose, questi lavori e andavo, anche con mio marito se c’era bisogno. Ho dimenticato di dire che le ragazze vengono ospitate in una struttura delle suore. Abbiamo pure cominciato a fermarci a mangiare con loro, così si è creata più famiglia. E adesso vi dico alcune cose.
Era arrivato molto materiale per fare delle tute, perché ci hanno detto che, arrivando l’inverno, in carcere hanno freddo. Queste ragazze hanno cominciato a tagliare le tute, a cucirle, ma erano tutte uguali... Io ho detto: “Non è bello che siano tutte uguali; ognuna di voi deve creare una sua tuta”. Allora ognuna ha messo a frutto i suoi doni. Preciso che all’inizio il materiale da lavorare arrivava alle suore. Ora da ottobre, quando è stato approvato il nostro progetto, abbiamo cominciato ad avere lavoro dalle ditte di assemblaggio. Nei giorni in cui manca il lavoro di assemblaggio, facciamo dei lavori autonomamente per il carcere oppure per creare articoli da vendere sulle bancarelle, giacchè abbiamo la possibilità di fare lavori diversi, come borse, ecc., a seconda della creatività della ragazza che arriva da noi.
Una cosa bella che ho vissuto è che quando pranziamo a mezzogiorno oppure a cena, si recita una preghiera e si fa a turno. Un giorno una di queste ragazze agli arresti domiciliari - fra l’altro non sono italiane, sono tutte straniere, e per questo arrivano lì – questa ragazza mi aveva comunicato che aveva un grosso problema in famiglia; allora nella preghiera abbiamo raccomandato che Gesù potesse aiutare a far sì che le cose andassero meglio. Il giorno dopo questa ragazza - era mamma - ha ricevuto una telefonata, e, quasi con rabbia, mi ha detto: “Il tuo Gesù non ha saputo fare proprio niente, perché la bambina me la porteranno via”. Io le ho detto: “Te l’hanno già portata via?”; “No, però domani aspetto la risposta perché mi hanno detto che me la porteranno via”. Il giorno dopo invece è arrivata la risposta che la bambina non è stata portata via; e lei ha ringraziato a pranzo, dicendo “Il tuo Gesù ci ha aiutati”.
Un altro episodio. Con noi c’è una signora musulmana. Dopo cinque anni di carcere lei è in affidamento al servizio sociale presso la nostra struttura. Avendo conosciuto questa attività, il carcere di Lecce ce l’ha mandata su a Bergamo. Un giorno ho detto a lei, essendo l’ora del pranzo: “Oggi vuoi dire qualcosa tu?”. Lei non ha risposto. Mi hanno detto “Lei è musulmana”. Allora ho parlato con lei, e lei: “Dopo cinque anni non ho più niente, non ho più pregato”. Dico: “Ti serve qualcosa, il Corano?”. Ma, non avevamo il Corano né altro libro. Allora ho saputo il nome del libro delle preghiere in croato, ho telefonato al focolare in Albania chiedendo questa possibilità. Quindici giorni fa dall’Albania ci è arrivato sia il Corano che il libro di preghiere. Il marito di questa donna, che era in carcere in un altro posto, è stato trasferito a Bergamo e, quando hanno il momento di incontrarsi, il marito viene in questa struttura e pregano insieme.
Ecco, questo è un po’ quello che facciamo.

Dott. Antonella Bianco
E’ bellissimo vedere come questi “semi di fraternità” fruttificano, come ci diceva Chiara: “Il nostro è andare a costruire pezzetti di fraternità, anche così diversi, perché l’amore si esprime secondo i talenti di ciascuno”. Adesso Carlo Tedde della Sardegna ci racconta cosa fa. Egli lavora nel mondo delle cooperative sociali; quindi è un altro tipo di esperienza.


Carlo Tedde
Io sono Carlo, lei è Maria Grazia ed è presidente di una cooperativa che si chiama Primavera ‘83 e si occupa principalmente di verde ed inserisce al suo interno persone che hanno difficoltà.

Maria Grazia
Abbiamo pensato di presentarci a vicenda. Con Carlo lavoro dall’88, ma la cooperativa compirà nella primavera prossima 25 anni; insomma una bella realtà, quasi un quarto di secolo. Ho conosciuto Carlo nell’87, poi sono entrata nella cooperativa. Lui proveniva da una sua ditta individuale che si occupava già di verde, e fu contattato da un’assistente sociale del comune di Cagliari per assumere l’incarico di seguire questa cooperativa che stava nascendo. E così lui si è buttato in questa realtà della Primavera ’83. All’inizio non eravamo granché organizzati, ancora non avevamo una rete che ci potesse aiutare per gli inserimenti lavorativi; facevamo un pochino con il nostro buon senso. Poi, crescendo, abbiamo capito che avevamo bisogno di collegarci con i Servizi del territorio: col SerT, ultimamente anche con la clinica psichiatrica, oltre che con l’UEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna), e abbiamo cercato con loro di fare tutto quello che poteva essere utile per l’inserimento lavorativo delle persone in difficoltà.
In seguito abbiamo capito che Carlo poteva spendere i suoi talenti operando più al largo, e dal 1997 opera all’interno di un consorzio di cooperative sociali e non solo perché, come vi dirà, è molto impegnato a livello nazionale. Io seguo in particolare, all’interno della cooperativa di cui a causa dei maggiori incarichi assunti da Carlo sono diventata presidente, l’aspetto dell’inserimento lavorativo, che seguo insieme ad altre persone: una psicologa e dei tutor che accompagnano gli utenti ai cantieri; il tutto in collaborazione stretta con il servizio terapeutico che ce li affida.

Carlo Tedde
Abbiamo pensato, anche per indicazione del dott. Caso, di presentarvi brevemente un po’ la storia della cooperazione sociale, pochi cenni.
Le cooperative sociali non esistevano prima del ’91. Negli anni ’80 c’erano cooperative che cercavano di dare risposte al bisogno di inserimento lavorativo di persone vulnerabili tra cui anche i detenuti. Queste cooperative non avevano una forma giuridica specifica sino al ‘91. Nel ‘91, sotto la spinta di un gruppo di cooperative della Confcooperative, che si erano riunite prima nell’85 ad Assisi poi successivamente a Roma, è stato chiesto al Parlamento che fosse fatta una legge che desse una veste societaria alle cooperative che lavorano specificamente per le persone vulnerabili. Contemporaneamente in Italia si sono sviluppati i Servizi che sino agli anni ’80 non avevano la struttura degli Assessorati ai servi sociali nei comuni. Quindi, nel ’91 – ed anch’io me ne sono occupato – è stata fatta la legge che ha istituito le cooperative sociali, distinguendo queste in due tipi:
a) le cooperative che danno servizi alla persona. Questo tipo di cooperative fa assistenza alla persona, per esempio l’assistenza agli anziani, l’assistenza ai detenuti, l’assistenza negli asili nido, l’assistenza ai malati di AIDS, ecc. Questo è il campo in cui operano questo tipo di cooperative.
b) le cooperative che hanno l’obbligo che almeno il 30% dei loro lavoratori siano persone “svantaggiate”, a me piace di più: “vulnerabili”. La legge specifica cosa si intende per “svantaggiato”: i detenuti che scontano una misura esterna alternativa, i sofferenti mentali, i disabili che hanno più del 40% di disabilità, i minori a rischio. Sono queste le categorie principali. Mancano però alcune altre categorie, per esempio le ragazze madri.
A seguito della predetta legge, dal 1991 ad oggi sono nate 8000 cooperative sociali in Italia. Di queste circa il 20% fanno inserimento lavorativo di persone svantaggiate e l’80% fanno servizi alla persona.
Posso darvi delle statistiche relative alle cooperative sociali della Federsolidarietà, di cui mi occupo e che rappresenta il 60% delle cooperative sociali. Ci sono 165.000 soci, 15.000 volontari che lavorano all’interno delle cooperative sociali, 131.000 lavoratori assunti, di cui 11.000 svantaggiati. 1200 sono i ragazzi del servizio civile che lavorano in queste cooperative. In pratica, per quanto riguarda l’inserimento lavorativo degli ex-detenuti, queste cooperative hanno una capacità di assorbimento 25 volte superiore rispetto alle imprese profit che non hanno questo obbligo. Quindi Federsolidarietà – Confcooperative ha una cooperativa ogni 14.000 abitanti in tutto il territorio italiano.
C’è poi l’infrastrutturazione. Cosa è? Le cooperative si sono man mano organizzate sul territorio, per cui sono nati 80 consorzi di cooperative, quindi più o meno in ogni provincia. Chiamiamo questi consorzi “consorzi di comunità” perché vogliamo che siano radicati nel territorio e cercano di mettersi in connessione con le altre organizzazioni che fanno pare del terzo settore, il settore sociale. Mi piace ricordare che quando è stata premiata Chiara a Strasburgo, Felice Scalvini, che è stato il primo presidente di Federsolidarietà, è stato premiato anche lui proprio per aver portato avanti in Italia questa iniziativa delle cooperative sociali. Quindi è un’organizzazione che ha avuto un interesse in Italia ed è stata riconosciuta anche dalla Commissione Europea.
Successivamente i “consorzi di comunità” si sono riuniti in un unico consorzio nazionale che si chiama CGM Welfare Italia e che cerca di aiutare tutti i consorzi a trasferirsi le buone prassi, cioè le cose buone che vengono fatte su un territorio, attraverso una rete nazionale. Questa è l’infrastruttura che è nata.
Un’altra struttura sono i Forum nazionali del terzo Settore. Anche questi Forum sono delle organizzazioni nuove che raggruppano le associazioni di volontariato. Il Forum del Terzo Settore nasce a livello nazionale nel 1997 ed è stato riconosciuto dallo Stato italiano nel ’99. Questo Forum del Terzo Settore esprime 17 Forum regionali; io rappresento il Forum regionale della Sardegna. I rappresentanti dei Forum regionali si riuniscono periodicamente a Roma.
Cosa si cerca di fare? In questo ambiente del “sociale”, che è complicatissimo perché sono tante le associazioni con una loro identità e con difficoltà riescono a dialogare perché sembra che ci sia quasi una gara ad acchiapparsi il servizio o anche azioni di volontariato per essere primi, no?, ecco il Forum Nazionale del Terzo Settore ha due compiti: uno è quello di raccogliere le istanze dei livelli regionali; l’altro, anche se siamo solo agli inizi – e qui è importantissima la formazione all’unità - è quello di cercare di creare fraternità tra le varie organizzazioni che operano sui territori; cercare di far sì che quello che fa un’organizzazione, quello che fa una cooperativa, che sia di sinistra di destra, lo faccia insieme agli altri. Infatti, la legge del ’91, che istituisce la cooperazione sociale per fare assistenza alle persone o per inserire persone svantaggiate, non ha lo scopo principale di creare posti di lavoro. Creare posti di lavoro è lo strumento per perseguire l’interesse della comunità locale, così è scritto nella legge. La cooperazione sociale nasce per rispondere ai bisogni della comunità locale. Spesso anche nelle nostre cooperative se lo dimenticano, perché pensano di fare posti di lavoro e si possono prendere strade perverse, di costruire dei servizi che non servono, e si sprecano le risorse sul territorio.
Termino dicendo un po’ quello che fa la nostra cooperativa.
Il Consorzio nazionale ha creato un ulteriore organismo che si chiama Consorzio Accordi, che a livello nazionale cerca di dare risposte sul tema dei detenuti. Per esempio nel 2001 sono andato nelle colonia penale di Is Arenas e di Isili (?) con Beppe Pezzetti che è il presidente della Federsolidarietà Lombardia. Siamo andati su richiesta del DAP, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che ci ha chiesto di fare questo tentativo: capire se era possibile trasformare le produzioni agricole di questa colonia penale, che è in perdita come altre colonie penali – (il costo per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è di tre milioni e mezzo di Euro all’anno) -, in attività produttive redditizie o che perlomeno non arrecano perdite all’Amministrazione stessa. Nel 2001 siamo andati lì, abbiamo portato con noi un imprenditore di Piacenza che era intenzionato ad investire – nel 2001 ancora non trovavamo nei supermercati la verdura lavata ed asciugata dentro le buste – per creare una piattaforma industriale e commerciale. Cosa è successo? Anche in questo caso le cose non si possono fare, se prima non si è creata l’unità, e se prima non si capisce che cosa sono le colonie penali.
Nello specifico, a Isili le produzioni vengono vendute dal personale della Amministrazione penitenziaria e sono una fonte di reddito secondaria per le loro famiglie. Quindi, quando siamo arrivati lì – io, inesperto – mandati da Roma, pensavamo di trovare tutte le porte aperte, ma era mancato un passaggio serio sul posto. Perciò ci siamo trovati – fra l’altro quel giorno nevicava - che non ci volevano neanche ricevere; alla fine ci hanno fatto vedere anziché i terreni che avevano – che sono moltissimi, non ricordo se mille ettari – ci hanno portato in una pietraia. Insomma hanno fatto di tutto per farci capire che avevamo sbagliato posto. Questo per dire che qualsiasi iniziativa per riuscire ha bisogno che si faccia prima tutto un lavoro, perché nel caso che ho detto occorreva fare sì che l’iniziativa potesse attuarsi senza che si continuasse a “fare la cresta” sulle produzioni, ma coinvolgendo i familiari che vivono lì nella produzione. Cioè ci sono delle possibilità per portare avanti queste iniziative, anche se è difficile. Nel frattempo il DAP continua a perdere tre milioni e mezzo all’anno per ripianare le perdite e oggi mi sembra che i detenuti sono pochissimi all’interno delle colonie penali.
L’altra cosa che abbiamo fatto nel 2005 a livello nazionale è stata la presentazione di un progetto relativo ai finanziamenti per i territori di Napoli, Cagliari, Bari, Gela e Matera – io, tra l’altro, sono presidente del Consorzio di Cagliari. Abbiamo fatto un’iniziativa di educazione alla legalità che si intitola: “Le regole della comunità”, all’interno del PON (Piano Operativo Nazionale), il quale è il programma con cui lo Stato finanzia le azioni soprattutto nel Sud Italia. Quindi nel 2005 abbiamo fatto questa azione di formazione in raccordo con l’ente locale del territorio, con i Centri per la Giustizia Minorile, ecc., e a me che non sono assolutamente esperto in educazione alla legalità – l’unica esperienza dal punto di vista educativo è che ho cinque figli – hanno dato, come ai presidenti dei altri consorzi, la responsabilità di coordinare questo gruppo.
Il Consorzio che io rappresento sta supportando in questo momento un’iniziativa nel carcere minorile di Quartucciu (CA) per mettere su una lavanderia. Le azioni che abbiamo fatto sono state: trovare i finanziamenti per comprare le lavatrici attraverso la fondazione e il Comune vicino; l’altra azione che abbiamo fato è stata quella di cercare di capire, assieme al centro per la giustizia minorile, assieme al direttore del carcere, di fare un’iniziativa che non fosse finta. Quindi all’inizio ci era stata messa a disposizione una sola stanza che era la vecchia lavanderia e abbiamo visto che questa cosa non era adatta. Qui l’esperienza mia è stata - io all’inizio non mi sono occupato direttamente – che io dicevo secondo me, io sono un imprenditore sociale – così c’è scritto nella carta di identità – però, dal punto di vista delle lavanderie sono un ignorante, non so come funziona la produzione di lavanderie… allora dicevo: bisognerebbe intercettare un imprenditore che sa fare questo mestiere in Sardegna e dirgli: guarda noi stiamo aprendo questa cosa nel carcere, ci dai una mano, tu, ci dici come si fa? Questa cosa all’inizio non è avvenuta, poi anche lì: io non ho pregato come Micaela in maniera specifica, però ho detto: mah, aspettiamo, vediamo quello che succede. Un giorno ad un ristorante mi presentano il figlio di questo imprenditore che è il più grosso imprenditore di lavanderie in Sardegna, che ha 500 dipendenti ed è una potenza. Subito gli ho detto alcune cose, mi ha dato il suo biglietto da visita e con lui siamo andati due volte nel carcere. È contentissimo di aiutarci, e così stiamo facendo il progetto.
Per ciò che sta facendo la cooperativa Primavera ’93, lo lascio dire a Maria Grazia.

Maria Grazia
In pratica noi inseriamo detenuti o ex detenuti attraverso l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna, e dal 2005 abbiamo avuto 8 persone che sono state con noi circa un anno con ottimi risultati. Erano persone che venivano da una detenzione di diversi anni, per cui molto provate. Abbiamo cercato, attraverso l’insegnamento delle tecniche di manutenzione del verde, di dar loro un supporto anche di recupero della persona. Tutto questo grazie all’equipe che collabora con il SerT. Possiamo dire che, tranne un caso in cui c’è stato un rientro in carcere, le altre di queste persone sappiamo che hanno trovato occupazione in altri ambiti lavorativi e la formazione che gli abbiamo dato nell’ultimo periodo è sicuramente valsa a questo.
Voglio accennare ad un’ultima esperienza che si svolge da metà del 2006 con una persona proveniente dall’ospedale psichiatrico giudiziario. E’stata una cosa difficilissima; per noi è stata un scommessa accettarlo nel nostro contesto lavorativo, e dobbiamo dire che dopo i primi tre mesi, che sono stati molto buoni per lui e per tutto il contesto, poi ci sono stati dei segnali forti di disagio, che stiamo cercando di contenere, sempre in collaborazione stretta con il Dipartimento di salute mentale a cui è affidato e anche con gli operatori della comunità a cui è affidato per il resto della giornata. Mi sembra che anche in questo caso si dimostra da parte di tutti gli operatori una grande voglia di fare molto di più di quello che viene chiesto a ciascuno. E così andiamo avanti. Grazie.







Impressioni di partecipanti


Antonella Bianco

Possiamo impiegare questo momento conclusivo del Seminario per comunicarci quello che hanno rappresentato per noi queste due giornate. Per la verità è stato un tempo strettissimo, però mi sembra che l’abbiamo sfruttato fino all’ultimo attraverso una condivisione molto bella, piena e proficua. Condivisione che c’è stata fra noi anche in ogni momento, in ogni intervallo, a pranzo, a cena, proprio perché probabilmente questa esplosione di vita, questa vita che c’è dietro ognuno di noi, diventa anche dono per ciascuno nel momento dell’incontro. Anche per me è stato così… mi tornava in mente quanto sentivamo da Chiara stamattina. Lei ha detto “noi viviamo l’amore, e poi sono venute fuori tutte queste opere”; inoltre: “vivendo così, è venuto naturale di rispettare i diritti dell’uomo, di promuoverli”. Mi sembra che forse è un po’ così anche per noi. Non ci siamo mai proposti di fare qualche cosa.. Dio per ciascuno di noi – ce lo raccontavamo – ha preparato una stradina. Questo nostro andargli dietro amando, dicendoGli sì momento per momento, e assistiamo – come in questi giorni - ai miracoli che Lui fa nelle nostre vite e in quelle di coloro che incontriamo. Se siamo stati soltanto LUI, siamo stati per quelli canale di qualcos’altro. Così chi vuole, adesso, può fare dono agli altri di ciò che è stato per sé questo incontro; ed inoltre donare qualche proposta - come diceva Gianni -, anche qualche suggerimento per fare meglio un’altra volta. Possiamo vivere questo ultimo momento insieme.


Caterina Di Marzo

Desidero dire solo due cose, forse tre. Anzitutto ciò che si è già messo in rilievo: quando parliamo con la creatura che è davanti a noi, non giudicare, non infierire, ma amare, e amare anche chi non è più. Poi, la necessità di una maggiore unità tra noi; qualche volte non c’è, e questo rende più pesanti alcune cose, quindi fare di tutto perché ci sia. Infine ciò che un pomeriggio una persona mi ha detto, che io ricordo con tanta attenzione: si prevedono tre mesi per preparare una persona che sta per uscire dal carcere, per predisporre l’ambiente in cui andrà, trovarle una casa, un lavoro, un qualcosa; ma preparare molto prima questo terreno, tanto prima.
Concettina Candeloro

Abito a Varese. Sono qui per dire grazie. Grazie soprattutto al Padre e a Gesù in mezzo a noi perché l’altro giorno, prima di partire, mi è arrivato sul tavolo uno scritto dove si dice: “noi non è che andiamo in un posto… ci andiamo perché siamo chiamati”. Il momento in cui ho sentito di dover venire a questo incontro è stato quando è arrivata la notizia del seminario; mi sono detta: “io non sono nello specifico del mondo carcerario, però cosa posso fare per questo?”. Allora mi sono ricordata che ho un’amica che lavora nel carcere e che avevo anche tante altre persone da poter invitare. Ho detto: “anche se non si è nello specifico, però il Signore chiama a fare la parte propria, che sarà forse fare un miglio, fare due due miglia, come dice il Vangelo. Devo dire che me ne torno arricchita, perché ho conosciuto un mondo che finora conoscevo solo da quello che ci propinano i mass media. Qui invece quanti dettagli, quante preziosità che sono venute fuori. Io sento adesso la responsabilità, nel tornare a casa, prima di tutto dell’unità sul territorio che bisognerà ricostruire. Con l’aiuto di Anna Teresa, di Fulvia, che siamo di Milano, ricomporre quest’unità almeno tra noi, vedere cosa veramente possiamo fare perché sicuramente ci sono tante potenzialità che sono nascoste, così come poteva essere la mia, il mio amore al sociale. Qui mi si è aperto di più questo aspetto. Poi desidero sottolineare una cosa che forse non è venuta fuori; cioè, là dove siamo spesso ci sono molti altri e non sappiamo la potenza del vivere insieme con altri che condividono questi stessi ideali. Ricordo sempre Domenico Mangano - che adesso è ‘di là’ e ci sta guardando -, il quale diceva: “Dobbiamo esser sicuri che là dove siamo, anche se l’altro non sa niente di noi, se noi l’amiamo si instaura con lui un rapporto di reciprocità”. Quindi dobbiamo andare sicuri di non essere soli. E se il Padre ci dà questa possibilità di vivere insieme questa realtà – (e mi viene in mente che lì a Busto c’è un’altra di noi che è assistente sociale) -, allora bisogna cercarsi, confrontarsi..… perché lì è una potenza. Ricordiamo che nel passato Tommaso Sorgi ci diceva: “piccole stelle”, ma da lì viene fuori quella luce che può illuminare questa oscurità, questa notte culturale che stiamo vivendo.


Benedetto Di Marzo

L’esigenza, che sono sicuro non è soltanto mia, è quella che diceva Caterina, che ha ricordato questo vivere a corpo, in unità. Forse in alcune parti lo si vive e forse anche in questo dobbiamo migliorare; ce lo ricordava Mons. Caniato che voleva sapere se c’era solo il Movimento dei focolari oppure altri. Perciò, per esempio, se io appartengo all’Opera di Maria non devo ambire che la persona con cui mi rapporto dovrà far parte del Movimento dei focolari, ma che insieme viviamo il “Che tutti siano uno”. Quindi, non badare alle nostre appartenenze (movimento dei focolari, Comunione e Liberazione o Neocatecumenali o Le piccole sorelle, oppure la Comunità di Sant’Egidio… Mons. Caniato, penso, non si riferiva alle singole appartenenze, ma stabilire unità tra noi tutti. A me sembra che delle volte ci sia un po’di invidia, come per dire io Benedetto sono più bravo di Pietro, perché sono più bravo a fare questo. Se io avessi questa presunzione, avrei sbagliato tutto perché senza don Pietro io non sarei niente, senza suor Giovanna non sarei niente, ecc. Perché non sarei niente? Perché non sarei quel “due o più”, quella vita….. Quindi io ho il dovere di vivere il mio carisma che mi permette di amare gli altri carismi. Ricordo che quando ad una delle prime focolarine, che andava far la spesa, le chiesero: “ma voi cosa fate?”, lei mentre comperava le patate – non so se si trattava di un onorevole, di un deputato – gli rispose: “Cerchiamo di vivere la Trinità in terra”.


Don Pietro Gennaro

Ho capito una cosa molto importante. Intanto sento dal profondo del mio cuore di dire grazie a tutti, grazie veramente per quello che ho ricevuto. Pensavo, a proposito dell’esperienza ultima di un carcerato, di un fratello che è cambiato completamente, “mamma mia, è una cosa enorme”, ma ieri sera mi sono sentito piccolo, piccolo, dinanzi a quell’altra esperienza che ci è stata donata, ritornare da quel fondo dove era precipitato… E mi domando: “Cosa c’è all’origine di questi cambiamenti radicali, perché non sono opera nostra, ma sono opera di Dio, opera della presenza di Gesù; e sappiamo che la presenza di Gesù si verifica dove due o tre muoiono l’uno nell’altro?”. Certo, non è facile stabilire questi rapporti interpersonali; meno male che “santa madre” Chiara ce l’ha messo non solo nella testa, ma nel profondo del nostro cuore, il segreto per far scendere realmente la presenza di Gesù che opera sempre da pari suo, da Salvatore, da Colui che trasforma le cose, che le rende nuove, le cambia di punto in bianco. Tutto è possibile.
Io all’inizio della mia attività di cappellano mi trovai subito dinanzi a delle realtà un pochino pesanti, perché ero portato a guardare l’esterno, e un pochino chiudevo gli occhi sul mio interno: dovevo cambiare io per vedere meglio le cose. Allora vedevo delle ripicche tra le guardie, non c’era accordo tra le guardie, ognuna andava per conto suo; e non parliamo dei nostri fratelli reclusi, dei vari clan… E tra le guardie e i detenuti ancora peggio. E poi tutto il mondo carcerario in rapporto col mondo esterno, un abisso. Allora ho cercato di tenere presente quello che Chiara ci ha affidato, che mi ha messo non solo nella testa ma anche nel cuore, questa armonia, questa unità, questo spirito di famiglia, questa fraternità; quindi puntare sulla fraternità universale. Aprire il cuore alla fraternità universale, non per così dire… ma profondamente, morendoci… perché non è stato facile mettere d’accordo le guardie, mettere d’accordo i detenuti dei vari clan, non è stato facile… però non mi sono arreso. Questo è il punto, perché Chiara dice che bisogna insistere, bisogna riprovare, bisogna guardare sempre con occhi nuovi tutti, senza giudicare… Qual è il punto? poichè subito mi catalogano. Sono le quattro fraternità, così le chiamo: - tra i detenuti, - tra le guardie, - tra le guardie e i detenuti, - tra il mondo carcerario e il mondo esterno. Queste sono le quattro fraternità. Ma, puntare sulla scoperta della fraternità universale, che riguarda tutti: qualunque cosa abbia commesso il nostro fratello, è figlio dell’unico Padre. Questo crea, ha creato nel tempo, dopo 26 anni, un’atmosfera tale che questo ragazzo, di cui ho fatto cenno prima, ha detto in un suo scritto in contemporanea con la presenza dell’urna di santa Teresina nel carcere di Noto – (c’è stato a livello nazionale un concorso a premi: “Teresina ti scrivo”, e anche lui ha partecipato e, pensate, ha avuto il primo premio in assoluto per stile e per contenuto) -, in questo scritto lui dice: “Venivo come dall’inferno e sono approdato nell’istituto di Noto come in Paradiso”. Io dico: “non è farina del mio sacco”, ma bisogna dirle queste cose perché sono una grande verità: nonostante i miei limiti, le mie manchevolezze, le mie inadempienze, ecc., dai ora, dai poi, si crea quest’atmosfera, e lui è stato colpito da questo, non credeva ai suoi occhi. E si è messo subito in cammino, alla ricerca del motivo di questo fatto, e andò a finire che una mattina di domenica, nella cappella dell’Istituto, si sedette al primo banco, in prima fila, e a destra c’era il ritratto di santa Teresina che lo guardava profondamente; si sentì guardato solo lui, nel profondo, e fu come un monito di cambiare, lo sentì profondamente. Poi ha chiesto informazioni e gli è stato data “La storia di un’anima”; l’ha letta e riletta, era entusiasta, era cambiato completamente, completamente cambiato. Allora ha partecipato al concorso, e lì racconta la storia, questa storia.
Questo per dire che a monte di queste cose, di questi cambiamenti, di questi interventi di Dio c’è l’amore, amarci come lui ci ha amati, da immettere nell’ambiente, e questo cambia l’ambiente e influisce sulle persone. Ma per arrivare a questo bisogna essere disposti a tutto, anche a dare la vita, sempre ogni giorno, ogni giorno, ogni momento… finché poi, quando Dio vorrà, si crea quest’atmosfera, si attira lo sguardo di Dio, non solo, ma la Sua presenza che opera sempre meraviglie. Vi ringrazio ancora per quello che ho ricevuto.